Google che chiede ai giornali un accordo di licensing per nutrire la propria intelligenza artificiale suona quasi ironico, se non fosse tragicamente coerente con la traiettoria del gigante di Mountain View. Per anni ha agito come un predatore elegante, raschiando titoli e snippet per alimentare Google News e i risultati di ricerca, mentre i publisher osservavano impotenti il drenaggio costante di lettori e inserzionisti. Oggi, però, qualcosa è cambiato. Non perché Google si sia improvvisamente scoperta etica, ma perché la fine dell’accesso illimitato ai dati è imminente. David Gehring l’ha detto senza mezzi termini: senza licenze, non ci sarà più sangue da mettere nelle vene del mostro AI. Una frase che merita di essere incorniciata nelle sale riunioni delle testate che ancora discutono se resistere o collaborare.

Il cosiddetto progetto pilota Google AI licensing, per ora limitato a una ventina di testate nazionali, è il tentativo disperato di ricucire un rapporto già marcio. Non è filantropia, è sopravvivenza. Perché mentre OpenAI e Perplexity AI già pagano i media per addestrare i propri modelli, Google ha finora giocato la carta dell’arroganza: un patto con Associated Press, un accordo con Reddit e il resto lasciato alla retorica del fair use. Adesso le regole cambiano, e chi controlla i dati controlla il gioco. Ma quanto vale davvero questa nuova partnership editori AI?

Le cifre non si conoscono e Google si guarda bene dal divulgarle. Un portavoce ha dichiarato che stanno “esplorando nuovi tipi di partnership”, la classica frase neutra che significa tutto e niente. Ma dietro le quinte le paure sono due e sono opposte: i publisher temono di svendere la propria anima per pochi dollari, Google teme che troppe barriere sui contenuti possano sabotare il suo stesso motore di ricerca. È una danza pericolosa. E se fino a ieri bloccare Google significava sparire dalla SERP, oggi i media iniziano a capire che il vero potere sta nell’assenza. Senza contenuti freschi e aggiornati, le AI generative diventano inutili carcasse algoritmiche.

C’è un paradosso che nessuno vuole ammettere apertamente. Gli editori accusano Google di cannibalizzare il traffico con gli AI Overviews, quelle risposte generative che compaiono in cima ai risultati. Ma nello stesso tempo non hanno il coraggio di chiudere la porta, perché vivere senza Google significa morire lentamente. È una sindrome di dipendenza digitale. In questo scenario, il licensing è il metadone: lenisce il dolore ma non cura la malattia. Chi pensa che un accordo di licensing basti a salvare il giornalismo non ha capito nulla di come funziona il business dei dati nel 2025.

Il tema dei diritti d’autore AI diventerà la prossima guerra legale planetaria. Lo dimostra la causa del New York Times contro OpenAI e Microsoft, lo ribadisce Matthew Prince di Cloudflare quando definisce Google un’eccezione che si crede intoccabile. Ma anche Prince sa che la festa sta finendo. La sua azienda ha lanciato un programma “pay per crawl”, e questa mossa segna un punto di non ritorno: ogni byte di contenuto avrà un prezzo. Ed è qui che Google perde il suo vantaggio competitivo, perché il suo impero è stato costruito sulla gratuità dei dati. Pagare per ogni accesso significa riscrivere il DNA di un modello di business nato sull’indicizzazione libera e indiscriminata.

La domanda vera è un’altra. Quanto sarà disposto a pagare Google per mantenere il suo dominio nel mercato AI, e quanto i publisher avranno il coraggio di farsi valere? Danielle Coffey, presidente della News/Media Alliance, insiste su un “diritto legale sostenibile alla compensazione”, ma senza un fronte unito i grandi editori rischiano di vendersi a prezzi ridicoli, mentre i piccoli resteranno fuori dal gioco. Non basta una pioggia di dollari a breve termine, serve una strategia per garantire che gli algoritmi di domani non trasformino i brand editoriali in semplici fornitori di carburante per chatbot.

Ecco la vera partita. Il Google AI licensing non è un gesto di riconciliazione, è un test di potere. Se le testate accetteranno accordi frammentati e segreti, Mountain View continuerà a dettare le regole. Se invece sapranno coordinarsi, potrebbero ribaltare i rapporti di forza e costringere le big tech a negoziare davvero. Ma quanti CEO editoriali hanno la visione strategica per capire che questo è il momento di alzare il prezzo, non di svendere la merce? La storia recente non lascia molti ottimisti. Eppure, paradossalmente, è proprio la fame di dati delle AI a restituire ai media un potere che avevano perso. Il problema è che pochi sembrano accorgersene.

Chi ha il coraggio di chiudere i rubinetti per davvero sarà odiato nel breve periodo e celebrato nel lungo. Perché senza contenuti credibili, i chatbot generativi diventano eco di se stessi. La vera domanda, alla fine, è chi avrà il fegato di farlo prima che Google si riprenda la scena con qualche mossa geniale di ingegneria semantica. E la risposta, per ora, non c’è.