Taiwan non sta più giocando a fare il fornitore per conto terzi dei giganti americani e cinesi. Ha appena lanciato una mossa da 510 miliardi di dollari che somiglia più a una dichiarazione di guerra industriale che a un piano economico. La chiamano “Ten Major AI Infrastructure Projects”, ma sarebbe più corretto ribattezzarla “Operazione Sovranità Digitale”. L’obiettivo? Trasformare l’isola nella prima “smart technology island” del mondo e, incidentalmente, scalzare chiunque altro osi anche solo pronunciare la parola “AI” senza pagare dazio a Taipei.
Taiwan gioca sporco, nel senso buono. Sfrutta le sue due armi letali, quelle che fanno tremare Washington e Pechino: i semiconduttori e il know-how ICT. TSMC, il colosso con il ticker TSM sulla borsa di New York, non è solo il più grande chipmaker del mondo. È la vera banca centrale dell’intelligenza artificiale globale. Senza i suoi chip avanzati, i data center che fanno girare ChatGPT o i sistemi predittivi delle Borse crollerebbero come castelli di carte. Ma ora TSMC non vuole solo produrre chip, vuole produrre l’infrastruttura stessa dell’AI del futuro, puntando tutto su una parola magica che per i non addetti ai lavori suona esotica: silicon photonics.
Il silicio fotonico, per chi si ostina ancora a ignorarlo, è il vero game changer. La combinazione di elettronica e fotonica promette di moltiplicare la velocità di elaborazione con consumi ridicoli. Tradotto per i CEO meno nerd: significa AI più veloce, meno energivora e, soprattutto, indipendente dai limiti dell’attuale architettura dei chip. Taiwan ha fiutato l’affare. E non è un caso che Foxconn, sotto la regia del suo presidente Young Liu, abbia già messo insieme la “Taiwan AI Robotics Industry Grand Alliance”. Un nome che sa più di alleanza militare che di consorzio industriale, e non è un’impressione sbagliata.
Perché l’altra gamba del piano è l’intelligenza artificiale applicata alla robotica. Chi controlla i robot intelligenti controlla le catene di montaggio, i magazzini, i porti e, tra qualche anno, anche i servizi urbani. È la differenza tra essere un fornitore e scrivere le regole del gioco. Foxconn, che per anni è stato sinonimo di manodopera a basso costo al servizio di Apple, ora punta a creare robot intelligenti che sostituiranno gli operai. Non è solo automazione, è l’annuncio della fine del vecchio modello industriale asiatico.
Il terzo asse strategico è ancora più ambizioso: quantum technology. Taiwan vuole costruire una filiera completa per i computer quantistici, la cui applicazione in AI potrebbe rendere ridicoli gli attuali supercomputer. Non è un caso che il governo parli esplicitamente di creare un’“industry chain” per il quantum. Tradotto in linguaggio di potere, significa sottrarre il dominio quantistico ai soliti noti e renderlo un asset strategico nazionale, come ha fatto TSMC con i chip.
Il piano ha un altro aspetto, spesso sottovalutato ma cruciale: il capitale umano. Tre mega laboratori di ricerca di livello internazionale e mezzo milione di nuovi posti di lavoro. Qui c’è la vera scommessa. Perché non bastano i chip, serve una generazione di cervelli che sappia progettare algoritmi, robot e architetture quantistiche. Il governo taiwanese lo sa e ha già messo sul piatto oltre 3 miliardi di dollari in venture capital per attrarre i migliori talenti globali. L’idea è semplice e brutale: se non possiamo battere gli americani e i cinesi sul numero di persone, possiamo pagare i migliori e portarli da noi.
“Se controlli l’hardware, l’AI è solo un problema di software”, mi disse una volta un ingegnere di TSMC con un sorriso quasi beffardo. Ed è questo il punto. Taiwan non sta sognando di competere con Silicon Valley sul piano delle app che fanno perdere tempo agli adolescenti. Sta costruendo la base stessa su cui le AI del futuro dovranno girare.
Il tempismo è perfetto. Con l’AI che divora potenza di calcolo come un motore a razzo divora carburante, chi possiede i chip, i data center e le architetture fotoniche possiede anche la leva per dettare prezzi, standard e tempi di rilascio. Nessuno in questo momento, nemmeno Nvidia, può vantare la stessa integrazione tra produzione, ricerca e visione politica.
Certo, resta la solita domanda: il piano da 510 miliardi è realistico o è l’ennesima dichiarazione altisonante da governo asiatico? Qui la differenza sta proprio nell’ecosistema. Taiwan non parte da zero. Ha già le fabbriche, ha già i cervelli e ha già il mercato. Quello che mancava era la narrativa e, sì, anche un po’ di arroganza. Ora ce l’ha.
Immaginate il 2040, un mondo dove i server quantistici fotonici made in Taiwan processano i modelli linguistici più avanzati, dove i robot intelligenti con firmware proprietario taiwanese gestiscono porti, logistica e forse anche ospedali, mentre le aziende americane e cinesi devono bussare a Taipei per ottenere forniture. Utopia? Forse. Ma ricordate che vent’anni fa nessuno avrebbe scommesso che un’isola grande quanto il Maryland avrebbe controllato il 90 per cento della produzione mondiale di chip avanzati.
La vera domanda, semmai, è un’altra. Gli Stati Uniti e la Cina lasceranno che accada? Oppure questa “smart technology island” finirà per essere il prossimo terreno di scontro geopolitico high-tech? A giudicare dal nervosismo con cui Washington sta corteggiando TSMC e dalle pressioni di Pechino sull’isola, direi che qualcuno ha già capito dove sta andando il vento.