Il bello di Google è che sembra sempre danzare sul filo di un rasoio d’oro. I numeri raccontati mercoledì confermano una verità imbarazzante per chi sperava nel declino della sua egemonia: la ricerca, quella che tutti davano per spacciata di fronte a ChatGPT e ai suoi cugini generativi, non solo regge ma accelera. Il business pubblicitario, il cuore pulsante di questa miniera, continua a pompare ricavi come se nulla fosse, un insulto velato a chi aveva già scritto l’epitaffio del motore di ricerca più potente del pianeta. Per ora, gli utenti preferiscono ancora digitare piuttosto che conversare con un chatbot. Sì, la Generative AI è sexy, ma la monetizzazione della curiosità umana resta ancora un gioco che Google sa giocare meglio di chiunque altro.

La vera sorpresa, tuttavia, è il Cloud. Quella che fino a poco tempo fa sembrava una costosa scommessa contro AWS e Azure ora mostra margini che fanno brillare gli occhi degli analisti: un balzo dal 11 al 20,7 per cento in dodici mesi è la definizione pratica di “finalmente funziona”. Sundar Pichai non ha perso l’occasione per suonare la fanfara: “L’intelligenza artificiale sta avendo un impatto positivo su ogni aspetto del business”. È un’affermazione che suona tanto come una dichiarazione di guerra quanto come un mantra aziendale. Ma dietro l’entusiasmo, c’è la matematica spietata dei bilanci. L’IA costa. E costa cara.

Ottantacinque miliardi di dollari in spese in conto capitale sono una cifra che fa impallidire qualsiasi CFO conservatore. È l’ennesima dimostrazione che la corsa all’intelligenza artificiale non è un gioco per dilettanti, ma una guerra di logistica e silicio. Ogni nuova istanza di AI generativa da addestrare, ogni query predittiva ottimizzata in tempo reale, brucia elettroni e macina server come carbone in una locomotiva del XIX secolo. I data center non crescono sugli alberi, e l’unico modo per alimentare questa macchina è investire a ritmi che nemmeno Google aveva mai sperimentato prima.

Il paradosso è evidente. Google sta spendendo di più che mai mentre assume di nuovo personale, come se la grande dieta del 2023 fosse stata solo un momentaneo capriccio da Wall Street. Centottantasettemila dipendenti, quasi ai livelli pre-licenziamenti, e in aumento nel prossimo trimestre. Per un’azienda che predica efficienza algoritmica, è una mossa che sa di vecchia economia. Eppure, se si vuole dominare l’intelligenza artificiale, servono cervelli umani che progettino quelli sintetici. L’automazione, ironicamente, ha ancora bisogno di programmatori in carne e ossa.

La domanda da cento miliardi di dollari è esattamente quella che Pichai ha elegantemente glissato. Un ritorno “sano” sugli investimenti in AI è una formula comoda, ma vuota finché non sarà chiaro quanto l’intelligenza artificiale generativa riesca davvero a trasformarsi in margini operativi e nuovi flussi di ricavi. Tradotto: quanti soldi veri Google riuscirà a spremere da Gemini e dai futuri modelli integrati nei suoi servizi. Perché se la scommessa non paga, il peso di questo capex finirà per erodere non solo i profitti ma anche la narrativa di onnipotenza tecnologica che Google si è costruita in due decenni.

Il mercato, per ora, ci crede. Un modesto +1,8 per cento nel dopo mercato è il segnale che gli investitori sono più rassicurati che impressionati. Ma l’aspettativa implicita è tossica: Google non può permettersi di fallire in questa nuova corsa, pena un lento ma inesorabile declino della sua supremazia. La miniera d’oro della ricerca è ancora aperta, ma l’oro facile si sta esaurendo. La prossima ricchezza dovrà venire dai circuiti neurali, e questa volta non ci sono scorciatoie.