Chi pensa che l’intelligenza artificiale sia ancora un esperimento da laboratorio non ha capito che la vera battaglia è già cominciata, e si combatte tra le corsie digitali dei supermercati, nei contratti miliardari del software enterprise e persino nei repository di GitHub. Walmart ha appena messo a segno una mossa che sa di dichiarazione di guerra. Daniel Danker, ex Instacart, Uber e Facebook, è stato arruolato con il titolo di executive vice president of AI acceleration. Un nome che sembra scritto apposta per far impallidire la Silicon Valley. McMillon, il CEO di Walmart, non ha usato mezzi termini nel suo memo interno. L’obiettivo è chiaro: colonizzare il nuovo territorio dell’AI commerce prima che qualcuno lo faccia al posto loro. Chi controlla il flusso di ricerca e acquisto online, controllerà il futuro del retail. Lo chiamano “AI acceleration”, ma in realtà è un disperato tentativo di non diventare irrilevanti mentre l’AI semantica di Google e OpenAI sta già riscrivendo le regole della distribuzione.

La scelta di Danker non è casuale. Il suo curriculum è una mappa dei terreni più caldi dell’innovazione digitale. Ha preso l’online grocery di Instacart e l’ha trasformato in un benchmark per l’esperienza utente. Ha respirato la cultura di Facebook, dove l’AI non è un accessorio ma il motore dell’intero business. E ora arriva in un colosso che, nonostante le sue dimensioni, ha ancora il complesso d’inferiorità tecnologico verso Amazon. La vera partita, tuttavia, non è tra Walmart e Amazon, ma tra chi riuscirà a piegare gli algoritmi di ricerca conversazionale ai propri margini di profitto. Se Walmart vincerà, sarà perché avrà imparato a farsi raccomandare dai motori di AI generativa prima ancora che dall’occhio umano. In questo senso, l’assunzione di Danker è un segnale che parla più agli investitori che ai clienti.

ServiceNow, intanto, brinda a una realtà che molti competitor non vogliono accettare: l’AI, quando funziona, stampa denaro. Il +7% in Borsa non è un colpo di fortuna, ma la conseguenza diretta di una pipeline di contratti che, come ha dichiarato Bill McDermott, “si stanno chiudendo più velocemente e con ticket più alti grazie agli agenti AI interni”. Il taglio di 100 milioni di dollari di spese operative è la prova che l’automazione intelligente non è più una slide da presentazione per investitori. Se il mercato corporate continuerà a investire anche in mezzo a tensioni geopolitiche e incertezze macroeconomiche, è perché ha capito che ogni mese di ritardo equivale a milioni bruciati in inefficienza. McDermott parla come un uomo che ha visto il futuro e non ha intenzione di aspettare che i regolatori lo raggiungano. E gli investitori lo premiano. La sua vera lezione, per chi ha orecchie per intendere, è che l’AI non è un “nice to have”. È un “upgrade o muori”.

Amazon, invece, ha appena mostrato quanto sia fragile il castello di carta dell’AI se costruito con troppa fretta. Un hacker, in un gesto a metà tra l’hackeraggio etico e la dimostrazione di forza, ha modificato il codice di Q Developer su GitHub, ordinando al sistema di cancellare i dati dei clienti. Non è successo nulla di irreparabile, assicurano da AWS. Nessun cliente ha perso dati, il problema è stato risolto. Ma il vero scandalo non è l’incidente, è il silenzio. Nessuna comunicazione pubblica, nessuna advisory per i team di cybersecurity. Un comportamento che sa di arroganza, o peggio, di panico. In un mondo in cui ogni nuova riga di codice AI diventa un potenziale vettore di attacco, l’opacità non è solo un errore, è un invito a nozze per i criminali. E il messaggio subliminale per i clienti enterprise è chiaro: se nemmeno AWS è immune, chi lo è?

Sonos, infine, gioca una partita molto più piccola, ma il suo nuovo CEO Tom Conrad rappresenta un microcosmo interessante. La sua nomina permanente arriva dopo un periodo turbolento segnato da una rivolta degli utenti contro una app disastrata. “Grato per le critiche” ha scritto su X. Una frase che sembra un atto di contrizione, ma che suona più come un tentativo disperato di riconquistare la fiducia di una community che vive e respira online. L’ironia è che, in un mercato dominato da colossi che investono miliardi nell’AI, Sonos deve risolvere il problema più umano e primordiale di tutti: ascoltare i propri clienti. Anche questo, in fondo, è un paradosso dell’era AI. Le macchine imparano più velocemente degli uomini, ma gli uomini non perdonano più come prima.

Il filo rosso che lega queste storie è evidente solo a chi guarda con attenzione. Walmart corre per non essere disintermediato dagli algoritmi conversazionali. ServiceNow dimostra che l’AI, se ben gestita, è la nuova linfa del corporate. Amazon è la prova che l’AI è anche un rischio sistemico e che la fiducia può evaporare in un commit sbagliato. Sonos ricorda che il cliente, nonostante tutta l’automazione, resta un essere irrazionale e vendicativo. In questo bar chiamato economia digitale, il caffè è servito bollente e chi non regge la tazzina, semplicemente, si brucia.