Il sorpasso non è ancora avvenuto, ma il rumore di fondo è inconfondibile: le donne stanno riscrivendo le regole del lavoro ad alto reddito negli Stati Uniti, e lo stanno facendo con una determinazione che trasuda più strategia che semplice emancipazione. Nel 2023, secondo l’analisi del Pew Research Center, il 46% dei manager americani era donna. Un numero che, messo così, sembra quasi scontato, ma che racconta un’evoluzione feroce se confrontato con il misero 29% del 1980. Restano un soffio sotto il 49% della forza lavoro complessiva femminile, ma la vera notizia è dove stanno puntando lo sguardo: i piani alti, quelli che contano e che pagano.

Il vero terreno di conquista, però, non è solo il management, bensì l’universo dei lavori professionali, quell’ampia costellazione di 109 occupazioni che spaziano dai computer scientist ai matematici, dagli operatori sanitari agli esperti di servizi sociali. Qui le donne sono già maggioranza solida: il 58% nel 2023, contro il 52% del 1980. Una percentuale che, tradotta in valore economico, significa accesso a stipendi superiori rispetto al lavoratore medio americano. E questo, in un sistema ancora spietatamente meritocratico e tutt’altro che “gentile” con chi non sa competere, è l’indicatore più forte del cambiamento.
Chi pensa ancora che la questione sia “di genere” è rimasto intrappolato negli anni ’90. La vera battaglia oggi è di potere e di posizionamento strategico in settori che definiscono il futuro tecnologico e sociale del Paese. La crescita femminile nei lavori matematici e informatici non è un vezzo statistico, ma un movimento silenzioso che potrebbe alterare in profondità gli equilibri decisionali delle corporation americane. Non è un caso che, mentre il dibattito pubblico si attarda su quote rosa e parità salariale, le donne stiano già colonizzando segmenti professionali ad alto valore aggiunto, quelli che in prospettiva plasmeranno le intelligenze artificiali, le infrastrutture sanitarie e perfino le politiche di welfare.
C’è ironia nel fatto che questa ascesa avvenga in un momento storico in cui la narrativa dominante dipinge l’economia statunitense come un’arena ipercompetitiva e ostile. Le donne stanno dimostrando di saper giocare proprio su quel terreno, senza chiedere regole più morbide, ma appropriandosi degli stessi meccanismi di selezione spietata che per decenni hanno favorito gli uomini. È la più grande vendetta culturale, e avviene quasi senza proclami. Non sono manifesti femministi a spingere il 58% delle donne nei lavori professionali, ma il pragmatismo: il denaro, l’influenza, la prospettiva di sedersi nei consigli di amministrazione.
Questa dinamica, se letta con la lente dei numeri, ha una logica impeccabile ma tutt’altro che rassicurante per chi detiene ancora il potere. Una forza lavoro femminile istruita, ben retribuita e concentrata nei settori strategici non chiederà più permessi, li prenderà. E il fatto che la percentuale di donne manager resti inferiore alla loro presenza complessiva nella forza lavoro è più un effetto inerziale che un limite strutturale. In altre parole, il sorpasso è una questione di tempo e, cosa ancor più significativa, di cultura manageriale.
Chi guarda solo ai numeri rischia di perdersi il punto essenziale. Il vero cambiamento non è quantitativo ma qualitativo: più donne in ruoli professionali ad alto reddito significa più donne con accesso ai centri di potere economico e politico. Ed è lì che la partita, quella vera, si giocherà. Chi scommette contro questa tendenza o la minimizza come una moda passeggera non ha capito che, in un’economia governata dai dati e dall’intelligenza artificiale, il talento – e non il genere – sarà la valuta decisiva. E le donne, oggi, stanno già accumulando capitale in abbondanza.