
Intel, una volta simbolo indiscusso dell’industria dei semiconduttori, si trova oggi in un vicolo cieco, segnato da una riduzione della forza lavoro superiore al 20% rispetto all’anno scorso, come annunciato giovedì. Il nuovo CEO, Tan Lip-bu, ha presentato un piano che suona come una bocciatura implicita del passato: “niente più assegni in bianco”, un manifesto di rigore finanziario che prelude a una trasformazione radicale. Quel colosso che dominava il mercato dei chip per PC e server ha perso terreno, soffocato da scelte gestionali sbagliate e da una strategia che sembrava dimenticare la realtà del mercato.
Il dato più eclatante è forse il ritardo di Intel nel settore delle intelligenze artificiali, un segmento dove Nvidia regna sovrana e dove Advanced Micro Devices sta erodendo la storica leadership del gigante californiano. Intel ha sprecato risorse in un progetto faraonico di produzione a contratto che doveva sfidare Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC), ma che si è rivelato un fallimento tattico. Tan, arrivato al timone a marzo, ha dovuto affrontare una realtà scomoda: tagli drastici al personale, vendita di rami d’azienda e una rimodulazione drastica delle priorità.
L’ironia sta nel fatto che il “rinnovamento” di Tan sembra più un ritorno alle basi, una reintroduzione di disciplina economica dopo anni di eccessi. La promessa di “costruire solo ciò che serve, quando serve” suona quasi come un’ammissione di colpa per un passato di sovrapproduzione e investimenti spericolati. Il processo produttivo 18A, su cui il predecessore Pat Gelsinger aveva puntato milioni, è ora oggetto di un acceso dibattito interno. Tan non esclude di chiudere l’accesso a questa tecnologia ai clienti esterni, limitandola ai soli prodotti Intel, per tentare di garantire un ritorno sugli investimenti più chiaro.
L’azienda ha attuato un taglio “chirurgico” del middle management, riducendo del 50% i livelli intermedi, come dichiarato dal CFO David Zinsner. Da 96.400 dipendenti a metà anno si scenderà a 75.000 entro fine 2024, con un calo netto del 22%. Non si tratta solo di numeri: è un ridisegno dell’intera architettura organizzativa, un messaggio forte a Wall Street e al mercato che Intel non intende più spendere a cuor leggero.
Analisti come Ben Bajarin, CEO di Creative Strategies, riconoscono il pragmatismo di questa svolta: “Possono aver speso troppo su 18A, ma questa sembra essere la base di una nuova disciplina finanziaria”. Tradotto: dopo anni di sogni industriali e investimenti faraonici, il gigante californiano si rimbocca le maniche, con la concretezza (forse l’ultima spiaggia) del rigore economico.
La strategia produttiva cambia passo. Non più fabbriche costruite “a prescindere” dalla domanda, ma investimenti calibrati e legati a ordini concreti. Il rallentamento della costruzione di nuovi impianti in Ohio, il congelamento di quelli pianificati in Polonia e Germania, la concentrazione delle operazioni di packaging in Costa Rica, Vietnam e Malaysia sono segnali evidenti di questo nuovo corso. Tan si dissocia dall’idea romantica del “costruisci e loro arriveranno”, convinto che ogni progetto debba superare un rigoroso vaglio economico.
Il peso del contesto macroeconomico non aiuta. L’incertezza globale, il ritiro prudente degli investimenti da parte dei clienti e il gioco delle tariffe commerciali, anche se Intel gode di alcune esenzioni, contribuiscono a un mercato volatile. Il trimestre di giugno ha registrato ricavi fermi a 12,9 miliardi di dollari, un dato che interrompe una serie di quattro cali consecutivi ma che non cancella le perdite: 67 centesimi per azione, molto più di quanto previsto.
Nel mezzo di tutto questo, il CEO si prende la briga di rivedere personalmente ogni progetto importante di chip. Una mossa quasi punitiva, ma necessaria per evitare altri fallimenti di gestione e garantire un’esecuzione rigorosa.
Il quadro complessivo è quello di un gigante in cerca di sé stesso, che paga il conto degli errori di decenni con una dolorosa ristrutturazione. La parola d’ordine è “fiscal discipline”, un termine che non risuona più come noioso gergo aziendale ma come una condanna o un riscatto a seconda della capacità di Intel di adattarsi a un mercato che ha perso tempo prezioso. Il mercato dei semiconduttori è una giungla dove solo chi capisce quando frenare, chiudere linee di prodotto e costruire su basi concrete può sopravvivere. Intel, dopo l’era delle spese folli e delle strategie troppo ambiziose, prova a riscrivere il suo destino con una strategia fatta di tagli, selezione e disciplina.
Chi guarda da fuori non può non domandarsi se questa nuova austerità sarà sufficiente o se Intel sia ormai un dinosauro destinato a soccombere sotto la spinta di concorrenti più agili e meno ingombranti. La storia insegna che chi non cambia muore, ma anche chi cambia troppo tardi rischia di non sopravvivere. Il futuro di Intel, ora più che mai, dipende da questa linea sottile tra ristrutturazione e rinascita.