Robert Oppenheimer fu molto più di un semplice nome sulla pagina della Storia: a Diciotto Anni era già una mente che anticipava cataclismi. A Cambridge, nel cuore degli anni Venti, l’uomo che sarebbe diventato il padre della bomba atomica tentò di avvelenare il suo tutor Patrick Blackett gettando una mela contaminata sulla sua scrivania. Non fu cianuro letale, ma una sostanza da laboratorio pensata per renderlo malato. In realtà la vicenda fu attenuata dal potere dei genitori di Oppenheimer, che evitarono l’espulsione e ottennero che lo studente fosse messo solo in prova e sottoposto a cure psichiatriche. La narrazione dell’episodio diventa simbolica: mente geniale e autodistruttiva in un solo gesto.
Il figlio Giuseppe Julius Oppenheimer intervenne presso l’università in persona: intervenne con tanto di pieghevole di sé stesso, ottenendo che i fatti fossero coperti e che la carriera proseguisse, seppure sotto osservazione. E infatti il giovane Robert iniziò sedute regolari con uno psicoanalista londinese, diagnosticate in quell’epoca con la vecchia etichetta “demenza precoce”, uno spettro che oggi riconosciamo come sintomi simili a schizofrenia.
Meno celebre ma ugualmente provocatoria è la sua fascinazione per il sanscrito, che studiò a Berkeley nel 1933 per leggere il testo sacro del Bhagavad‑Gita nella lingua originale. Non si convertì davvero, ma chiamava la sua auto “Garuda”, il mitico uccello di Vishnu. E durante il test Trinity del 1945, citò a voce alta il verso dalla Gita “Now I Am Become Death, The Destroyer Of Worlds”. Se ti aspetti un nerd ascetico, beh, hai sbagliato persona.
La fisica teorica gli scorreva nel DNA intellettuale. Di Ricerca sui buchi neri, su contrazione gravitazionale e stelle di neutroni parlò quando nessuno ancora lo faceva. Alcuni storici e fisici oggi ritengono che se fosse vissuto abbastanza, avrebbe vinto il Nobel per quegli studi sul collasso gravitazionale, mai riconosciuti in vita. Fu candidato quattro volte, nei 1946, 1951, 1955 e anche postumo nel 1967, senza però mai ottenere il premio.
Politicamente era un enigma. Tra il 1937 e il 1942 fece parte di un’unità segreta del Partito Comunista alla UC Berkeley, una “closed unit” composta da docenti: riunioni regolari, volantini firmati “College Faculties Committee, Communist Party of California”. Oppenheimer negò sotto giuramento ogni coinvolgimento. Solo dopo il ritrovamento dei diari del suo compagno Gordon Griffiths divenne chiaro che quel gruppo esisteva davvero. Ma non c’è evidenza che abbia fatto spionaggio. Fu un patriota ambiguo, senso di colpa politico e scientifico in un solo corpo.
Alla Commissione sulla sicurezza del 1954 la sua clearance fu revocata, ma uno dei commissari, Ward V. Evans, unico voto contrario, dichiarò che espellerlo sarebbe stato «una macchia nera sullo scudo della nostra nazione». Il gesto non impedì la sua carriera pubblica, ma instillò in lui l’alone della tragedia americana.
Oppenheimer non era solo fisica. Aveva un debole per la geologia; a dodici anni tenne una lezione al New York Mineralogical Club; a Harvard e Berkeley coltivava interessi in letteratura francese, filosofia orientale e psicoanalisi. Era fluente in greco, latino, tedesco, francese, olandese, persino sanscrito. Racconta la storia che imparò l’olandese in poche settimane per sostenere una conferenza tecnica nei Paesi Bassi, un’impresa da superuomo accademico.
Molti non sanno che fu anche ideatore del “Panel per il disarmo”: una commissione del Dipartimento di Stato Usa nel 1952–53, presieduta da lui, che propose di non testare la bomba H e promuovere maggior trasparenza nucleare. Quel documento influenzò le iniziative Atomi per la Pace di Eisenhower.
La sua vita privata era un teatro di ossessioni emotive. Jean Tatlock, psichiatra e comunista, fu la sua amante segreta; quando lei rifiutò la proposta di matrimonio, continuarono per un po’ una relazione intensa, fino al Manhattan Project. Le autorità militari li tennero sotto sorveglianza a San Francisco nel ‘43. La profondità del legame e del senso di colpa influenzò il suo attitude politico e personale.
Molto pochi ricordano Dorothy McKibbin, conosciuta come “la guardiana di Los Alamos”. Fu la segretaria di Oppenheimer a Santa Fe nell’ufficio segreto dai cui uffici passavano i nuovi scienziati diretti al “Hill”: nessuno sapeva dove andava. Lei era incaricata di bruciare ogni documento ogni sera, proteggeva briefcases, bambini, animali, ricordi. Fu deputata a smistare ogni arrivo e pass giornalieri. Oppenheimer la chiamava spesso nel cuore della notte, e la sua casa era spesso invasa dagli ospiti del progetto. Lei rimase lì pur rifiutando di trasferirsi a Los Alamos.
La bomba atomica non gli diede gloria ma dilemma. Finanziò, progettò, guidò. Poi rinnegò il salto alla bomba all’idrogeno, criticando la corsa agli armamenti nucleari in pubblico. Fu cane e carnefice di sé stesso, con senso del dovere e conflitto morale che pochi comprendono ancora oggi.
Infine il mito della mela e della follia giovanile diventa parabola: a Cambridge, in un momento di disperazione, tentò di far ammalare il suo stesso mentore, per frustrazione, gelosia, incapacità di adattarsi al lavoro sperimentale. Il fatto fu confermato da biografi e amici come Francis Fergusson: “Riempì la mela di tossici, la lasciò sulla scrivania, poi partì per Corsica”, dove amici confessarono tutto. Il tutor non mangiò mai la mela, la vicenda emerse e fu coperta. Oggi resta un’ombra inquietante su una mente straordinaria, esempio estremo di genialità accompagnata da instabilità emotiva.
Queste non sono storie ornamentali. Sono tessere di un mosaico logico e oscuro che spiegano perché Oppenheimer sia stato l’uomo che ha trasformato la fisica teorica mondiale e al tempo stesso ne è rimasto intrappolato. Se ti interessa approfondire il ruolo di Edward Teller in quel disegno, oppure le tensioni politiche post‑’54, posso continuare a sbriciolare illusioni e portare luce su aspetti ancora più sottili, poco narrati.