Gli Stati Uniti, quel grande laboratorio dove le crisi fiscali diventano sport olimpico, stanno flirtando ancora una volta con il dramma del debito pubblico. E proprio quando il sipario sembrava calare sul solito teatrino del tetto alzato e del default evitato per miracolo, ecco spuntare un attore inaspettato: l’intelligenza artificiale. Secondo Torsten Slok, chief economist di Apollo Global Management, l’AI non solo potrebbe contribuire a risolvere il problema, ma potrebbe esserne la chiave. Sì, la chiave. Quella parola abusata che solitamente finisce nella bocca di chi promette rivoluzioni senza sapere nemmeno dove sia il lucchetto.
Il ragionamento, a differenza della politica fiscale americana, è sorprendentemente lineare. L’aumento della produttività generato dall’intelligenza artificiale generativa potrebbe fornire la spinta necessaria per riequilibrare i conti pubblici, generando maggiore crescita economica e quindi più entrate per lo Stato. Slok cita un possibile scenario in cui l’adozione massiva dell’AI da parte delle imprese porta a un’espansione della base imponibile. Più produttività, più guadagni, più tasse. Tutto molto elegante sulla carta. Come sempre.
La keyword qui è produttività. E dietro quella parola si nasconde un concetto semplice quanto brutale: ottenere di più con meno. Più output per unità di input. Un mantra che ha perso il suo smalto negli ultimi decenni, in un’America post-industriale dove la crescita della produttività si è seduta comoda sul divano, aspettando che qualcun altro facesse il lavoro sporco. Ora però, con modelli come GPT-4, Claude e Gemini pronti a scalare catene del valore e supply chain intellettuali, l’idea di un’economia che torna a correre non sembra più solo una fantasia da economisti con troppa fiducia nel futuro.
Ma c’è un problema. O meglio, una serie di problemi, perché l’intelligenza artificiale non opera nel vuoto. Affinché il miracolo della produttività si realizzi davvero, servono infrastrutture, accesso equo alla tecnologia, formazione delle competenze e, soprattutto, una governance che non sia ancora ferma ai protocolli del 1997. Per ogni azienda che integra l’AI e raddoppia i margini, ce n’è un’altra che ne viene disintermediata o addirittura distrutta. E quando parliamo di dinamiche macroeconomiche, la media è una favola che raccontiamo ai bambini per farli dormire. Gli impatti, come sempre, saranno distribuiti in modo diseguale.
Slok, tuttavia, vede una luce in fondo al tunnel fiscale. Secondo le sue analisi, se l’adozione dell’intelligenza artificiale spingesse il tasso di crescita reale del PIL sopra il livello dei tassi d’interesse reali, il rapporto debito/PIL potrebbe iniziare a scendere anche senza interventi drastici su tasse o spesa. Un equilibrio dinamico tutto fondato sulla crescita, non sull’austerità. Detto altrimenti: non tagliare, ma far esplodere il denominatore. Una strategia per nulla nuova, ma oggi dotata di un booster tecnologico che potrebbe darle finalmente gambe.
Ovviamente, nessuna rivoluzione è gratis. Gli investimenti necessari per integrare efficacemente l’AI sono giganteschi, e il rischio di creare nuove bolle speculative è tutt’altro che trascurabile. L’entusiasmo cieco verso i large language model e gli strumenti generativi rischia di far perdere di vista la sostenibilità economica e sociale del cambiamento. Il mercato azionario, sempre più simile a una scommessa da casinò tecnologico, premia chi pronuncia “AI” più spesso negli earnings call, ma la realtà produttiva è molto meno spettacolare.
C’è poi la questione del mercato del lavoro. Il Congressional Budget Office ha già espresso preoccupazioni su come l’AI possa cambiare la composizione occupazionale e ridisegnare le dinamiche salariali. Se i guadagni di produttività vengono accentrati nelle mani di pochi grandi player, l’effetto sulla crescita del gettito potrebbe essere molto più limitato del previsto. Le big tech, si sa, non brillano certo per spirito patriottico fiscale. Spostano profitti come prestigiatori, e ogni dollaro guadagnato in più rischia di perdersi tra un’isola fiscale e una ristrutturazione strategica.
Tuttavia, l’ipotesi di Slok ha un merito: introduce un elemento di ottimismo razionale nel discorso sul debito. In un’epoca in cui la discussione pubblica è polarizzata tra chi vuole tagliare tutto e chi vuole spendere tutto, l’idea che si possa crescere attraverso l’innovazione offre una via di fuga narrativa. Una narrativa che, come tutte le storie ben raccontate, funziona anche se non è del tutto vera. O quantomeno non ancora.
Nel frattempo, il debito americano continua a salire, spinto da spese obbligatorie sempre più ingestibili, interessi crescenti e una classe politica che alterna isteria fiscale a rimozione cognitiva. L’intelligenza artificiale potrebbe davvero cambiare il gioco, ma solo se viene integrata in una strategia industriale coerente, non lasciata alle sole logiche di mercato. Pensare che basti inserire ChatGPT in un workflow per ridurre il debito federale è come pensare che un frigorifero smart possa salvare un matrimonio.
Serve una visione sistemica. Un’architettura istituzionale in grado di valorizzare l’AI come leva macroeconomica. Serve una politica fiscale che sappia distinguere tra investimenti e spese, tra innovazione e gadget. Serve una regolamentazione che premi la diffusione dell’AI nei settori ad alta moltiplicazione fiscale, come la sanità, l’istruzione, i servizi pubblici. E serve anche una nuova alfabetizzazione economica: perché se il pubblico non capisce cosa sta succedendo, la politica continuerà a rincorrere l’opinione anziché guidarla.
Nel cortile di Washington, intanto, si continua a litigare sul nulla. Ma dietro le quinte, una trasformazione più silenziosa è in atto. Il codice sta diventando capitale. L’intelligenza artificiale, se ben incanalata, potrebbe ridisegnare i fondamentali economici degli Stati Uniti. Non con la magia, ma con la matematica. Non con i tagli, ma con l’efficienza. E forse, proprio per questo, è la proposta più radicale di tutte.
Se Apollo ha ragione, non sarà il Congresso a salvare l’America dal debito. Sarà un algoritmo. Uno che non vota, non litiga, non dorme. Ma che sa leggere i bilanci meglio di qualsiasi senatore.