Chiariamolo subito. Il ponte sullo Stretto di Messina è più di un progetto infrastrutturale. È il mostro mitologico dell’ingegneria italiana, una creatura a metà tra retorica da campagna elettorale, ambizione geo-strategica e propaganda industriale. Dopo oltre mezzo secolo di rinvii, ritorni di fiamma e sabotaggi politici, l’Italia ha ufficialmente deciso di andare fino in fondo. Il comitato interministeriale per gli investimenti pubblici strategici ha dato il via libera al progetto da 13,5 miliardi di euro. Matteo Salvini ha definito il ponte “un acceleratore per lo sviluppo”, questa espressione l’aveva già usata anche per la TAV, l’autonomia differenziata e il codice della strada.

La verità è che il ponte sullo Stretto, con i suoi 3,7 chilometri totali e una campata centrale di 3,3, sarebbe il più lungo ponte sospeso del pianeta, spodestando il Canakkale Bridge in Turchia. Ma a dispetto del record, quello che dovrebbe unire Sicilia e Calabria non è solo una struttura ingegneristica. È un artefatto politico. Un monumento alla resilienza della burocrazia italiana, che riesce a far lievitare costi, tempi e incertezze fino a trasformare un’opera di connessione in un totem ideologico.

La parola “ponte” in Italia ha sempre avuto un valore metaforico. Collega territori, ma divide le coscienze. Non è un caso che l’idea di costruirlo risalga all’Impero Romano. Nerone ci aveva pensato, Mussolini l’aveva sognato, Berlusconi lo voleva lasciare in eredità al secolo. Ora ci riprova il governo Meloni, come se completare finalmente l’opera significasse anche redimere le generazioni precedenti, sanare la frattura cronica tra il Nord e quel Sud sempre evocato ma mai incluso.

Secondo Salvini, il ponte sarà una “rivoluzione” per il Mezzogiorno. C’è da chiedersi se lo dice con cognizione o con un pizzico di ironia lombarda. Perché pensare che il ponte da solo possa creare occupazione, rilanciare l’economia siciliana e fermare la diaspora intellettuale verso Milano o Berlino è come pensare che basti una manciata di binari per fermare l’emorragia demografica di interi territori. È la narrazione della grande opera come panacea universale. La solita favola di cemento armato.

Ma l’aspetto più inquietante, e al tempo stesso affascinante, è la saldatura tra geopolitica e ingegneria. Il governo italiano vuole classificare il ponte come infrastruttura “a rilevanza strategico-militare”, utile al dispiegamento rapido di truppe e mezzi NATO nel Mediterraneo. Un ponte come asset bellico, come corridoio di guerra, non solo di trasporto. L’idea fa sorridere ma anche riflettere: in un’epoca in cui la guerra si combatte con droni e satelliti, l’Italia rispolvera la logica della logistica ottocentesca.

La comunità accademica ha reagito con sdegno. Oltre 600 tra professori e ricercatori hanno firmato un appello per fermare la militarizzazione del ponte, sottolineando che tale classificazione richiederebbe ulteriori studi di resistenza strutturale. Ma la questione non è solo tecnica. È politica, culturale, ambientale. Perché se il ponte diventa “militare”, allora può aggirare norme, bypassare verifiche e zittire le opposizioni in nome della sicurezza nazionale. Una strategia già vista altrove, quando l’emergenza giustifica tutto.

Il dossier ambientale, naturalmente, è un altro campo minato. Gli ambientalisti hanno già presentato ricorsi a Bruxelles, citando i rischi per l’avifauna migratoria e la mancanza di prove concrete che l’opera risponda a un interesse pubblico imperativo. In un’Europa dove ogni infrastruttura deve dialogare con la biodiversità, l’idea di cementificare lo Stretto per fare da scorciatoia ai tir non appare proprio green. Ma si sa, quando in Italia si parla di “sviluppo”, l’ambiente è l’ultimo a essere invitato al tavolo.

Poi c’è la questione che tutti temono di nominare ad alta voce ma che aleggia come uno spettro su ogni cantiere del Sud: la mafia. Il decreto che riattiva il progetto prevedeva inizialmente il controllo diretto del Ministero dell’Interno sulle misure anti-infiltrazione, ma il Presidente della Repubblica ha imposto il rispetto della normativa antimafia standard, proprio per evitare scorciatoie ad hoc. Ecco, anche questo è un paradosso: bisogna difendere un ponte non solo dai terremoti, ma anche dai clan.

Il consorzio che si è aggiudicato l’appalto è guidato da WeBuild, ex Salini Impregilo, un colosso che conosce bene le sfide ingegneristiche estreme. Sono gli stessi che hanno costruito il Canakkale Bridge in Turchia, utilizzando proprio il modello aerodinamico pensato per Messina, con una sezione simile a una fusoliera di jet militare. Un curioso ritorno al futuro, dove l’Italia esporta tecnologie mai applicate in patria ma finalmente pronte a rientrare con gli interessi.

Quanto al rischio sismico, croce e delizia del dibattito tecnico, WeBuild assicura che i ponti sospesi sono meno vulnerabili ai terremoti. Hanno già dimostrato la loro resistenza in aree come il Giappone, la California e la stessa Turchia. Ma Messina è un’altra storia. Qui, nel 1908, il sisma distrusse la città e causò decine di migliaia di morti. Progettare un ponte in questa zona non è un semplice esercizio ingegneristico. È una sfida antropologica. È costruire un simbolo dove la memoria trema ancora.

Il ponte sullo Stretto sarà in grado di sostenere 6.000 veicoli all’ora e 200 treni al giorno. Una capacità impressionante, sulla carta. Ma la domanda è: esiste davvero oggi una domanda di traffico che giustifichi questa portata? Le infrastrutture sono utili solo se inserite in un ecosistema coerente. Senza un piano per il rilancio dei porti siciliani, senza un sistema ferroviario interconnesso ed efficiente, senza un’economia locale dinamica, il ponte rischia di diventare una superstrada verso il nulla.

C’è anche chi sostiene che il vero obiettivo non sia il ponte, ma l’indotto. Gli studi, le perizie, le gare, gli espropri, le consulenze, le varianti in corso d’opera. È l’economia del cantiere infinito, il PIL da movimento terra. Un grande classico italiano, dove il progetto vale più del prodotto. Dove il simbolo conta più del risultato. Dove l’incompiuto è la norma e non l’eccezione.

Pietro Salini, CEO di WeBuild, ha detto che il ponte sarà “un game-changer per l’Italia”. Un’affermazione audace, quasi evangelica. Ma game-changer per chi? Per i pendolari che ogni giorno affrontano la tratta Messina-Villa San Giovanni, ancora ostaggio di traghetti obsoleti? Per i turisti che immaginano una Sicilia più raggiungibile e meno isolata? Per le imprese che aspettano una logistica più fluida per competere in Europa? O per la politica che ha bisogno di un trofeo da sventolare in tempi di crisi di consenso?

In questo racconto epico, il ponte diventa una proiezione collettiva: della frustrazione per un Sud marginalizzato, della nostalgia per una grandezza perduta, dell’ossessione per la modernità come scenografia. Ma attenzione. I ponti, come le promesse, non bastano da soli. Bisogna attraversarli. Con intelligenza. Con trasparenza. E con la consapevolezza che ogni metro costruito sopra lo Stretto è un passo nella narrazione che l’Italia fa di sé stessa. Una narrazione dove, per una volta, ci si augura che le parole si traducano davvero in fatti. E non in un altro monumento all’eterna attesa.