Al bar dei Daini, il caffè sa di metallo fuso e silicon valley, e oggi il chiacchiericcio è più frizzante del solito. Apple ha annunciato un nuovo investimento da 100 miliardi di dollari nella produzione negli Stati Uniti. Tutti applaudono, ma nessuno si alza davvero in piedi. Perché il retroscena è chiaro anche al barista: è l’ennesimo compromesso tra Cupertino e il ritorno del protezionismo muscolare à la Trump. Quando il presidente alza la clava delle tariffe, perfino Tim Cook tira fuori il portafoglio come un bravo scolaretto. Dopotutto, se ogni iPhone prodotto in India ti costa 800 milioni di dollari in dazi a trimestre, il patriottismo industriale diventa improvvisamente molto redditizio. O almeno, meno doloroso.

La narrativa ufficiale è quella del reshoring, della sovranità tecnologica, del “Made in America” in salsa high-tech. Ma la realtà è più scomoda: Apple non produrrà nemmeno una vite in Ohio, continuerà a spostare l’assemblaggio dove conviene, ma spenderà qualche miliardo in data center, magazzini, e partnership di facciata. Un teatro da export per far felice Washington e far respirare Wall Street. Se sei un brand da 3 trilioni, i dazi non li combatti con i tweet, ma con le fatture.

Nel frattempo, l’altra America, quella che non produce smartphone ma li usa per lavorare, consegnare hamburger e cercare un alloggio su Airbnb, galleggia tra trimestrali brillanti e promesse di automazione che puzzano di vecchio già da nuove. Dara Khosrowshahi, CEO di Uber, giura che le auto robotiche saranno presto tante quanto quelle guidate da esseri umani. Lo dice con la calma di chi sa che l’IPO è alle spalle e che, a furia di buyback miliardari, ogni utopia può essere ingegnerizzata a colpi di comunicati stampa. La crescita del 18% nel fatturato è reale, ma resta un volano fragile: quando il ciclo gira, anche la “piattaforma” più agile si schianta contro il muro della domanda reale. E non sarà certo una flotta di Waymo a salvare l’equazione.

Poi ci sono i chip, il vero campo di battaglia della nuova guerra fredda 2.0. Trump, con l’eleganza di un bulldozer, ha annunciato tariffe del 100% su ogni semiconduttore importato. Tutti inorridiscono, tranne quelli che hanno già piantato bandiera negli States. TSMC esulta. Samsung e SK Hynix brindano. Il resto dell’Asia guarda e prende appunti. L’ironia? La fabbrica americana di TSMC in Arizona ha più cerimonie inaugurali che wafer prodotti. Ma in borsa non conta la produzione, conta la narrativa. La narrativa della resilienza, della sicurezza nazionale e dell’alleanza anti-Cina.

In questo contesto, Musk gioca un’altra partita. Con Grok, l’IA generativa targata xAI, il buon Elon si candida a diventare il regista occulto della pubblicità su X, l’ex Twitter, l’ex social, l’attuale esperimento sociale live. L’idea è geniale e inquietante: lasciare all’algoritmo la decisione su cosa vendere, a chi, e quanto deve pagare in base alla sensibilità morale del contenuto. Un modello che premia la tolleranza al rischio etico. Una mossa che ricorda da vicino il mercato secondario dei titoli tossici pre-2008. Ma qui si tratta di attenzione, e Musk lo sa: l’attenzione è la nuova moneta, e lui stampa banconote a forma di tweet.

Elon Musk ha annunciato che X (ex Twitter) integrerà pubblicità direttamente nelle risposte di Grok, l’AI del gruppo, per risollevare un business pubblicitario in evidente crisi dopo l’uscita della ex CEO Linda Yaccarino. Durante una diretta, Musk ha spiegato che la priorità finora è stata rendere Grok “la più intelligente e precisa AI al mondo” e ora è il momento di “pagare quelle GPU costosissime”. Gli inserzionisti potranno così comparire tra i suggerimenti generati dal chatbot, puntando su soluzioni contestuali alle richieste degli utenti. Inoltre, Musk userà la tecnologia di xAI, la sua startup AI che ha acquisito X per 45 miliardi di dollari, per perfezionare il targeting degli annunci sulla piattaforma.

Nel frattempo, Shopify vola. Nonostante l’ambiente tossico di dazi e incertezza macroeconomica, la crescita del 31% del fatturato fa pensare a una resilienza che è più algoritmica che reale. Si cavalca l’onda dell’e-commerce, si innestano agenti AI nel carrello, si trasforma ogni click in un comportamento predittivo monetizzabile. Il tutto senza troppi scrupoli, finché l’Amazzonia non prende fuoco o i server non esplodono per il caldo.

Tutto questo succede mentre il sistema si ridefinisce secondo logiche post-globali. Non più supply chain lineari, ma ecosistemi tribali. Apple investe dove serve a evitare una tassa. Uber cresce dove gli altri si fondono. Trump minaccia dazi per generare investimenti fittizi e Musk inventa nuove metriche morali per il mercato pubblicitario. In questa America protezionista di facciata e libertaria di sostanza, l’innovazione non è più una corsa al progresso, ma una danza di sopravvivenza tra capitali mobili e potere statale.

Al bar dei Daini si ride amaro. Perché sotto la patina delle trimestrali, c’è un mondo che si regge su algoritmi che simulano la crescita, CEO che predicano l’ottimismo con lo sguardo di chi ha appena letto il bilancio, e presidenti che giocano a risiko con i chip come se fossero patatine. Ma guai a dire che è tutto finto. Il gioco funziona finché qualcuno crede che lo sia. E in fondo, con un caffè forte e una connessione WiFi, anche l’illusione diventa scalabile.