Lascia che affondi, lentamente, come una verità scomoda: il Primo Ministro della Svezia, Ulf Kristersson, utilizza ChatGPT per governare il suo paese. No, non è una boutade. Non è un titolo clickbait su un blog techno-pop, né un esercizio di futurologia. È accaduto davvero. Il capo del governo di una delle democrazie più avanzate al mondo ammette di affidarsi “piuttosto spesso” all’intelligenza artificiale generativa per supportare il processo decisionale nazionale.

Non si tratta di “giocare” con la tecnologia per il gusto della novità, né di quell’approccio new age al potere, tipo governance con le vibrazioni o le good vibes dei meme manageriali. Kristersson fa domande a ChatGPT prima di prendere decisioni strategiche. E non domande banali. Le sue tre preferite sono da manuale di leadership illuminata:

“Cosa hanno fatto gli altri?”
“Qual è la visione opposta?”
“Cosa mi sta sfuggendo?”

Ora, fermati un secondo. Respira. Perché la portata del gesto è colossale. Questo non è un esperimento da laboratorio o una trovata da campagna elettorale. È un cambio di paradigma nella governance algoritmica globale. È, probabilmente, la prima volta nella storia contemporanea che un Capo di Stato ammette apertamente di usare un’intelligenza artificiale generativa come supporto strategico, in modo regolare e sistemico. Nessun comunicato patinato, nessuna scusa sull’“esplorazione tecnologica”. Solo una dichiarazione sobria e tagliente: la uso. Funziona.

Sembra quasi banale, eppure è rivoluzionario. Perché se un leader può ammettere pubblicamente di consultare un algoritmo prima di prendere una decisione geopolitica, allora siamo entrati, a tutti gli effetti, nell’era della co-decisione uomo-macchina. E non è detto che sia un male. Anzi. Come i medici cercano un secondo parere o gli analisti finanziari si confrontano con modelli predittivi per testare le proprie ipotesi, anche i politici, finalmente, iniziano a usare strumenti evoluti per sfidare i propri pregiudizi cognitivi.

Chi guida oggi senza AI sta guidando bendato. Punto.

Ma la vera domanda, quella che sussurra nel sottotesto di tutta questa storia, non è “se” i leader debbano usare l’AI. Quella è già superata. La domanda vera è: sanno ancora quando non farlo? Perché, e vale la pena ribadirlo, l’AI non è saggia. È veloce. Non è responsabile. È sicura di sé. Non è corretta. È plausibile.

L’intelligenza artificiale generativa è come quel consulente brillante che parla sempre per primo in una riunione: affascinante, competente, spesso convincente, ma non necessariamente giusto. Ti dice quello che suona bene, non sempre quello che è vero. Il rischio, se non si possiede il discernimento di chi la interroga, è quello di scambiare la simulazione della verità con la verità stessa. Ed è qui che la AI decisionale smette di essere uno specchio e diventa una stampella. E quando si appoggia troppo a una stampella, prima o poi si dimentica come si cammina.

La vera forza dell’AI, oggi, è quella di offrire feedback, divergenze, deviazioni mentali. È utile per spezzare i loop cognitivi, per stressare una tesi, per simulare scenari che la mente umana scarterebbe per pura abitudine. È l’assistente che non ha paura di contraddirti, perché non ha un ego da difendere. Ma non può prendere decisioni etiche, e non può prevedere le conseguenze politiche di un errore. Non è nata per questo. E se un leader si dimentica questo piccolo dettaglio, rischia di cedere la responsabilità in cambio della comodità.

Tuttavia, chi scrive non è incline al luddismo digitale. Anzi. Ulf Kristersson sta facendo, nel suo silenzioso pragmatismo scandinavo, qualcosa di radicalmente onesto: sta dicendo che il re è nudo, e che per prendere decisioni complesse oggi serve un’arma in più. L’intelligenza collettiva non basta più. Serve l’intelligenza sintetica.

Altri leader lo fanno già. Ne sono certo. Ma non lo dicono. Perché l’idea di un algoritmo nel cervello della macchina statale fa ancora paura all’opinione pubblica, e ai media da talk show. Ma sarà sempre più difficile nascondere l’ovvio. Quando il vantaggio competitivo di chi usa AI è visibile nei risultati, nel timing, nella lucidità delle decisioni, chi continua a volare a vista sarà spazzato via. Con buona pace dei puristi della “leadership istintiva”.

Dopotutto, siamo passati dall’età del ferro a quella del silicio senza chiedere il permesso. L’AI non è un’opzione. È un differenziale. E chi sa usarla, oggi, governa meglio. O per lo meno, governa in modo più informato. E questo, in tempi di complessità sistemica, vale oro.

Nel 1956, John McCarthy coniò il termine “artificial intelligence” e disse: “Ogni aspetto dell’apprendimento o qualsiasi altra caratteristica dell’intelligenza può, in linea di principio, essere così precisamente descritto da permettere a una macchina di simularlo”. Ma nemmeno lui, probabilmente, si immaginava un Premier svedese che chiede a un chatbot cosa si sta perdendo.

Difficile dire se Kristersson passerà alla storia per questo. Ma una cosa è certa: ha dato il via a una stagione nuova, dove l’intelligenza artificiale nella politica non è più un’ipotesi, ma un fatto. E ora che il ghiaccio è rotto, sarà interessante vedere chi sarà il prossimo ad ammetterlo. O a farsi scoprire con le mani nel prompt.

Perché la partita, da qui in avanti, non sarà più tra chi usa AI e chi no. Ma tra chi la guida, e chi si lascia guidare.