Cina ha investito 455 miliardi di yuan, cioè 63,3 miliardi di dollari, nei primi sei mesi del 2025 nel settore dei semiconduttori. Un numero che a prima vista può sembrare impressionante, ma rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente è calato del 9,8 per cento. Un calo che suona come un campanello d’allarme in un settore dove la competizione globale si gioca su ogni centesimo investito e ogni nanometro di tecnologia. L’apparente contraddizione però arriva da un dettaglio intrigante: l’investimento in attrezzature per semiconduttori è schizzato di oltre il 53 per cento nello stesso periodo. Una mossa che racconta una strategia ben più sottile e lungimirante di una semplice riduzione dei fondi.
In un mondo dove la dipendenza dai fornitori esterni è stata smascherata come un tallone d’Achille, la Cina punta con decisione a costruire una filiera autosufficiente. Il fulcro degli investimenti resta la produzione di wafer, i dischi sottilissimi di silicio purificato che rappresentano la base su cui si costruiscono i chip, quei cervelli elettronici che governano smartphone, computer, e ora sempre più veicoli elettrici e reti 5G. La produzione di wafer assorbe il 51 per cento degli investimenti totali, una fetta enorme che mostra chiaramente dove la Cina vede il futuro della sua supremazia tecnologica.
Il resto degli investimenti si distribuisce tra progettazione dei chip, che ha subito un calo del 24 per cento, e il packaging e testing, diminuiti del 28 per cento. Il calo in queste aree è una fotografia chiara del contesto globale: la domanda di elettronica di consumo è debole, complici tensioni geopolitiche e problemi nella catena di fornitura internazionale. Ma non si tratta di un semplice ridimensionamento: è un ricalibraggio del gioco. La Cina sembra scommettere tutto su quello che sta “dietro le quinte” della produzione, cioè macchinari, materiali avanzati e tecnologie che permettono un salto di qualità necessario per scalare la piramide tecnologica globale.
La distribuzione geografica degli investimenti è altrettanto significativa. L’80 per cento è concentrato in cinque regioni chiave, con Jiangsu orientale al comando (21 per cento), seguito da Shanghai (19 per cento) e Zhejiang orientale (14 per cento). Beijing e Hubei centrale, con il loro sviluppo nel settore delle memorie, si dividono il resto con il 12,5 per cento ciascuno. Il Delta del Fiume Yangtze è il cuore pulsante della catena industriale, con un ecosistema robusto che spazia dalla produzione di wafer al packaging, un mix che difficilmente si trova in altre aree del mondo. La combinazione di politiche di attrazione dei talenti e una pioggia di investimenti rende Shanghai e Beijing poli tecnologici imprescindibili.
Non si può ignorare il ruolo crescente dei materiali semiconduttori, che hanno incassato 16,2 miliardi di yuan, pari a più del 27 per cento degli investimenti totali. Questo indica un cambio di paradigma dall’era del silicio tradizionale verso materiali ad alte prestazioni, essenziali per veicoli elettrici, 5G e smart grid. Un investimento che non è solo tecnico ma strategico: chi domina i materiali detterà le regole del gioco in un futuro prossimo.
La “fase di coltivazione fine” in cui entra l’industria cinese dei semiconduttori sembra un ossimoro ma nasconde una realtà profonda: non più solo quantità, ma qualità, innovazione, e resilienza. Lo scenario geopolitico spinge a puntare su tre fattori chiave: innovazione di rottura, politiche industriali efficaci e cooperazione internazionale. Un tris difficile da bilanciare, soprattutto quando la politica tende a mettere paletti al libero scambio tecnologico.
Non è un caso che, nonostante la retorica della guerra tecnologica, la Cina investa massicciamente in macchinari e materiali. Non si può vincere una partita globale senza possedere la macchina da cucire delle tecnologie di base, la fabbrica invisibile che crea il valore reale. Un investimento da gigante, ma con i piedi per terra, che dimostra come la Cina giochi una partita di lungo termine, dove il silenzio degli investimenti in alcune aree è solo il rumore di sottofondo di una trasformazione che sarà radicale.
Il mercato globale dei chip non è una corsa a chi spara più soldi, ma una danza strategica fatta di tempismo, capacità di innovare e visione geopolitica. La Cina, con il suo approccio metodico e una spinta a investire soprattutto negli elementi meno visibili al grande pubblico, sta cercando di riempire i buchi più critici della sua catena produttiva. Questi numeri non raccontano solo un calo, ma un profondo cambio di paradigma. Non sempre il successo si misura in crescita lineare, a volte serve saper scavare più a fondo.
È interessante notare che, mentre il mondo guarda a gadget e prodotti finiti, la vera sfida è sotto la superficie, nel silicio e nei materiali avanzati, nella capacità di costruire fabbriche di chip capaci di competere alla pari con i leader mondiali. Se la Cina riuscirà in questo intento, allora sì che potremo parlare di un nuovo ordine tecnologico. Fino ad allora, ogni cifra è uno spunto di riflessione, non un punto di arrivo.