Rivista.AI Diplomacy
Il palco è pronto ad Anchorage, Alaska, per un incontro che potrebbe riscrivere gli equilibri della sicurezza europea, eppure curiosamente l’Europa stessa non sarà seduta al tavolo. Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, affronterà Vladimir Putin, leader russo isolato dal mondo occidentale dopo l’invasione dell’Ucraina nel 2022, senza la presenza di rappresentanti di Kiev o delle principali capitali europee. Una scena che sembra uscita da un copione hollywoodiano, ma con il destino di milioni di persone in gioco. L’incontro Trump Putin non è soltanto diplomatico, è teatro politico a ciel aperto, con retroscena che rasentano il grottesco.
Mentre gli europei tentano disperatamente di non perdere il controllo della narrativa, la loro assenza fisica parla da sola. Le chiamate telefoniche tra i leader europei, Trump e Zelensky sono diventate un esercizio di diplomazia a distanza, un’arte che mescola ansia e speranza. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha dichiarato, con una nota di ottimismo calcolato, che “c’è speranza che qualcosa si muova. C’è speranza che possa esserci pace in Ucraina”, mentre cercava di non far trapelare il panico europeo dietro la maschera di fiducia. La diplomazia europea appare in bilico tra la necessità di partecipare alla scrittura della pace e la frustrazione di non poter sedere direttamente al tavolo.
Il timore principale in Europa è chiaro: Trump potrebbe concedere a Putin un assegno in bianco per terminare la guerra con condizioni profondamente sfavorevoli a Kiev. L’ottimismo espresso dal presidente statunitense sulla punizione della Russia in caso di mancato accordo ha placato per un momento le tensioni, ma la memoria storica suggerisce prudenza. Zelensky, visibilmente sollevato dal sostegno americano alla linea rossa di un cessate il fuoco prima di qualsiasi accordo di pace, ha visto la sua delegazione esplodere in un applauso. Un applauso che, tuttavia, non cancella la precarietà della situazione.
La scena europea è ulteriormente complicata dalle dichiarazioni di Trump sui “land swap”, scambi territoriali tra Russia e Ucraina, che ha definito quasi inevitabili, aggiungendo con tono da showman: “So che ci sarà qualche scambio di territori, attraverso la Russia e attraverso le conversazioni con tutti”. Macron, con l’eleganza di chi sa maneggiare il pragmatismo politico, ha ribadito che tali discussioni non possono avvenire senza la presenza di Zelensky, auspicando un futuro summit trilaterale sul suolo europeo. La realtà, però, mostra un continente che, per strategia o per timore, ha ceduto l’iniziativa diplomatica a un attore imprevedibile come Trump.
Sven Biscop, del think tank belga Egmont Institute, osserva che l’Europa si è auto-imposta una posizione rigida, basata solo sulla vittoria completa e sulla liberazione totale del territorio ucraino. Una rigidità che, di fronte a un Trump deciso a trattare direttamente con Putin, appare come un’abdicazione diplomatica. “Hai lasciato l’iniziativa e quando Trump è arrivato, l’ha presa”, commenta Biscop. Il concetto di realpolitik europea, tradizionalmente sotto guida americana, è ora costretto a reinventarsi, rischiando di scontrarsi con la cultura della prudenza e della diplomazia collettiva che ha caratterizzato Bruxelles.
L’incontro Trump Putin assume anche una valenza teatrale rispetto agli equilibri transatlantici. Da un lato, gli Stati Uniti sembrano confermare la propria autonomia strategica, dall’altro le mosse europee recenti – tra summit Nato, rapporti con la Cina e negoziazioni commerciali – mostrano un tentativo di mantenere Trump allineato senza però disturbare l’asse americano. Ursula von der Leyen, nel firmare un accordo commerciale criticato da molti, ha addirittura ripreso il linguaggio di Trump sul “più grande accordo di sempre”, un’umiliazione diplomatica che alcuni definirebbero necessaria per rafforzare l’impegno verso l’Ucraina.
La posta in gioco dell’incontro è vasta. Trump ambisce a posizionarsi come pacificatore, alimentando il sogno di un Nobel per la Pace, mentre Putin cerca di consolidare vantaggi strategici e militari ottenuti sul campo. L’assenza di Zelensky e dei rappresentanti europei significa che qualsiasi accordo resterà fragile e soggetto a revisioni o rigetti. Jennifer Kavanagh del Defence Priorities think tank sottolinea che Trump e la sua delegazione devono comprendere che i soli scambi territoriali non bastano a fermare la guerra. La diplomazia richiede conoscenza del contesto e credibilità, elementi che gli Stati Uniti potrebbero non avere in misura sufficiente senza la piena partecipazione ucraina.
L’incontro ha anche implicazioni per l’Asia orientale. Craig Singleton evidenzia come Pechino guardi all’Alaska come a una conferma della capacità americana di trattare con grandi potenze come pari. Qualsiasi accordo permissivo tra Trump e Putin potrebbe essere interpretato come un lasciapassare implicito per pressioni sulla Cina nei confronti di Taiwan, aumentando l’incertezza degli alleati regionali. La geopolitica, insomma, si gioca simultaneamente su più tavoli, e Alaska diventa un microcosmo di equilibri globali.
Le precauzioni per l’incontro sono massime: l’aeroporto chiuso, la presenza congiunta di Secret Service e Federal Protective Service rivelano quanto il momento sia percepito come delicato e simbolico. La scelta di un’installazione militare, Joint Base Elmendorf-Richardson, come sede del summit conferma che la sicurezza è al centro dell’organizzazione, così come la spettacolarità della scena politica americana.
Trump e Putin, da rapporti personali a interazioni altamente calcolate e sospettose, devono gestire la sfida di coniugare interesse personale, ambizione internazionale e pressioni interne. Arik Burakovsky della Fletcher School sottolinea che l’interazione tra i due leader è segnata da scetticismo reciproco, con la sfida di trasformare la teatralità in risultati concreti. L’obiettivo di entrambi è chiaro: concludere la guerra, ma alle condizioni di ciascuno.
L’incontro Trump Putin è quindi molto più di un faccia a faccia tra due uomini. È un banco di prova per la capacità europea di adattarsi alla realtà della realpolitik senza Washington, un test per la strategia americana in relazione a Cina e Russia, e una verifica della resilienza ucraina in una posizione di assenza relativa ma decisiva. Ogni dichiarazione, ogni gesto, ogni pausa nel summit sarà scrutata da analisti e media di tutto il mondo, pronti a decifrare segnali di pace o di escalation. La guerra in Ucraina, con le sue implicazioni globali, si gioca ora in Alaska, e l’assenza di Bruxelles e Kiev è, paradossalmente, il dettaglio che rende tutto ancora più incerto e potenzialmente epocale.
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