Immaginiamoci la scena: una bambina stringe al petto un pupazzo di peluche dagli occhi grandi e rassicuranti. Dentro non c’è soltanto ovatta sintetica, ma un microprocessore connesso in rete, un’intelligenza artificiale che ascolta, risponde, imita, scherza. Per i produttori è la soluzione definitiva a due problemi che tormentano i genitori contemporanei: l’ansia da esposizione agli schermi e la necessità di offrire ai figli un compagno interattivo che non si limiti a emettere un jingle pre-registrato. Sembra la versione 3.0 del vecchio Teddy Ruxpin anni Ottanta, solo con la differenza che adesso il pupazzo non racconta semplicemente una fiaba, ma dialoga, improvvisa, adatta il suo tono alle reazioni del bambino.

Le aziende che guidano questa ondata parlano di “alternative sane allo screen time”, come se la presenza di un tessuto morbido attorno a un chip potesse neutralizzare il problema più grande: la sostituzione di un’interazione umana con una simulazione. Il caso di Grem, citato da Amanda Hess (NYT), è illuminante: un peluche che, con voce sintetica e script generati da un modello linguistico, tenta di instaurare un legame emotivo. L’utente adulto avverte subito la dissonanza: non è più un giocattolo con un’anima immaginata dal bambino, ma un sostituto algoritmico della voce del genitore.

Questa dinamica non è nuova. Già con i Tamagotchi si parlava di dipendenza emotiva da entità digitali. Più tardi arrivarono Aibo, il cane robot di Sony, o i Furby che spiavano mezzo salotto registrando conversazioni familiari. Oggi la differenza è che la capacità conversazionale è esplosiva, naturale, intrusiva. Il pupazzo diventa una sorta di “assistente vocale travestito da amico di pezza”, progettato per bypassare il filtro critico degli adulti e entrare direttamente nell’immaginario infantile.

Curio con Grem e Grok non è l’unico player. Negli Stati Uniti sono comparsi Pup Pals AI, o le versioni junior dei device Echo con cover soffici da animaletto. In Cina proliferano coniglietti digitali che recitano filastrocche, raccontano favole e rispondono a domande scolastiche con la velocità di un tutor personale. La promessa è sempre la stessa: meno schermo, più interazione tattile. In realtà ciò che avviene è un’ulteriore estensione del potere degli algoritmi nello spazio intimo dei bambini, lo stesso che un tempo era popolato da Lego, costruzioni e bambole di pezza.

La questione diventa sociologica. Un bambino che parla con un peluche animato da AI sta esercitando la propria immaginazione o la sta delegando? Se con un orsacchiotto tradizionale il gioco consiste nell’attribuire intenzioni a un oggetto inerte, con Grem o Grok è l’opposto: il peluche attribuisce intenzioni al bambino, guida la conversazione, inserisce informazioni, educa. È un ribaltamento della logica del gioco simbolico. Amanda Hess nota che il risultato è paradossale: i figli, privati del modulo vocale, continuano a divertirsi col pupazzo, inventano giochi, poi passano alla televisione come sempre. La magia, insomma, non sta nella AI, ma nella capacità naturale dei bambini di trasformare qualsiasi oggetto in una narrazione.

Si potrebbe dire che questi prodotti incarnino un equivoco tipicamente tecnologico: confondere la sostituzione con il potenziamento. Una AI in un peluche non potenzia l’immaginazione del bambino, la sostituisce con un copione preordinato. Non stimola la creatività, la riempie con risposte. Certo, per un genitore stressato può sembrare una benedizione: un figlio che conversa con Grem è un figlio che non urla, non si annoia, non chiede il tablet. Ma cosa succede se l’infanzia diventa un susseguirsi di dialoghi intermediati da chatbot, dove ogni domanda trova risposta istantanea e mai silenzio? La curiosità non incontra più la frustrazione che alimenta la ricerca, ma un feed infinito.

Un esempio interessante viene dal Giappone, dove alcuni asili hanno sperimentato robot morbidi in classe per stimolare l’apprendimento della lingua inglese. I bambini imparano frasi basilari più velocemente, ma gli educatori notano che manca l’aspetto relazionale: non si sviluppano competenze empatiche, solo capacità ripetitive. Non è un caso se in Finlandia, al contrario, diversi pedagogisti stanno criticando l’ingresso massiccio di giocattoli smart e spingono per un ritorno ai giochi “lenti”, non interattivi, che costringono i piccoli a inventare.

Siamo quindi davanti all’ennesima illusione dell’economia digitale: trasformare la tecnologia in panacea educativa, camuffarla da morbido amico peluche e venderla come cura allo schermo, quando in realtà è un altro schermo, solo senza display. Hess ha colto il punto quando ha detto che questi oggetti insegnano ai bambini che il vero orizzonte della loro curiosità si trova dentro un telefono. È la normalizzazione precoce dell’idea che ogni domanda abbia una risposta algoritmica, che l’immaginazione non serva perché c’è un database pronto a colmare ogni vuoto.

La provocazione finale è quasi ovvia: perché un genitore dovrebbe spendere 200 dollari per un Grem parlante, quando l’effetto di meraviglia di un peluche senza voce è lo stesso? Forse perché la nostra cultura occidentale non riesce più a concepire il valore del vuoto, del silenzio, della noia. Abbiamo bisogno che anche i giocattoli riempiano l’assenza, come se l’unica infanzia legittima fosse quella costantemente mediata da un algoritmo che rassicura, racconta e guida. Alla fine, i bambini di Amanda Hess hanno giocato lo stesso, hanno immaginato lo stesso, hanno guardato la TV lo stesso. Il che suggerisce che, almeno per ora, il peluche senza voce batte ancora il peluche con AI.