Il funerale dei modelli precedenti era stato annunciato con fanfare degne di una rivoluzione digitale. GPT-3.5, 4.0, 4.5, 4o, archiviati come vecchie reliquie di un’epoca passata, sacrificati sull’altare del nuovo monolite chiamato GPT-5. Un colpo di scure secco, una promessa di semplificazione radicale, un messaggio quasi messianico: un solo modello per domarli tutti, un’unica intelligenza universale capace di sostituire la frammentazione caotica con la purezza dell’unità. Il marketing adorava la narrativa. Gli investitori applaudivano. Gli utenti, almeno nei primi giorni, fingevano entusiasmo. Poi, come in ogni favola troppo perfetta, è arrivata la realtà.
La realtà è che le imprese non vivono di manifesti filosofici ma di prodotti che funzionano, che rispettano budget, che mantengono la personalità dei chatbot senza ridurli a copie insipide dello stesso algoritmo. GPT-5 era e resta una macchina ibrida impressionante, con routing intelligente e contesto esteso, ma chiedere a un solo modello di incarnare la versatilità di GPT-4o, la disciplina di o3-pro, la leggerezza di 4.1-mini e la stabilità quasi militare di GPT-4.5 equivale a chiedere a un CEO di essere al tempo stesso CFO, designer, ingegnere e customer support. Bello da raccontare in un TED Talk, meno bello quando i sistemi in produzione collassano sotto costi esorbitanti o risposte imprevedibili.
Il ritorno delle vecchie glorie dieci giorni dopo è stato più che un incidente di percorso. È stato il riconoscimento implicito che la retorica della “unified intelligence” non regge quando incontra i bilanci aziendali e le pipeline operative. Non si tratta di nostalgia tecnologica, ma di pura economia. Un modello generalista come GPT-5 può gestire quasi tutto, ma non sempre con la stessa efficienza. Per compiti di ragionamento scientifico rigoroso, o3 resta superiore. Per prototipi veloci e quantitativi, o4-mini è insostituibile. Per applicazioni enterprise stabili e prevedibili, GPT-4.5 continua a rappresentare un asset più affidabile. La diversità non è un lusso, è un principio strutturale del sistema.
La domanda allora non è se GPT-5 sia abbastanza potente, ma se l’idea stessa di un unico modello sovrano abbia senso fuori dal laboratorio. Nel mondo reale, le aziende cercano opzioni, non dogmi. Vogliono scegliere lo strumento giusto per il compito giusto, proprio come un architetto non rinuncerebbe mai a tutta la sua cassetta degli attrezzi per affidarsi a un unico martello universale. La retorica dell’AI unificata piace ai board che inseguono la narrativa della semplificazione, ma il mercato è un animale pragmatico.
C’è poi un aspetto più sottile: la personalità. I modelli non sono solo motori di calcolo, ma identità che plasmano l’interazione. GPT-4o aveva un’impronta multimodale unica, GPT-4.1 era percepito come un ingegnere affidabile, mentre o3-pro incarnava la freddezza logica del problem solver. Nel momento in cui si forza tutto dentro la sintesi di GPT-5, il rischio è la standardizzazione delle esperienze, la morte della diversità cognitiva che rende i chatbot riconoscibili, quasi “umani” nella loro differenza. È un po’ come se tutte le riviste economiche decidessero di adottare lo stesso tono, la stessa voce. Sarebbe più semplice, certo, ma anche terribilmente noioso.
Ecco perché la mossa di OpenAI è stata un curioso autogol narrativo. Nel tentativo di consolidare, hanno dimostrato la necessità della pluralità. La verità, ironicamente, è che nonostante le promesse di universalità, l’intelligenza artificiale riflette lo stesso paradosso della biologia: i sistemi prosperano nella diversità. L’evoluzione non premia il monolite ma l’ecosistema. Un solo modello onnipotente è una bella copertina, un buon titolo da keynote, ma nella pratica quotidiana gli utenti preferiscono un ventaglio di strumenti, ciascuno ottimizzato per un’esigenza distinta.
La provocazione resta: il futuro sarà governato da un’unica entità capace di adattarsi come un organismo totale, o assisteremo al fiorire di un ecosistema di specialisti chirurgici, ciascuno con il proprio vantaggio competitivo? A giudicare dai fatti, perfino OpenAI ha dovuto ammettere che l’utopia del “one model to rule them all” funziona meglio in PowerPoint che in produzione. Forse il mito del modello universale è solo un’altra illusione tecnocratica, la versione AI del “too big to fail”. Ma la storia ci ricorda che la varietà è sempre sopravvissuta al centralismo e il mercato, con la sua spietata sincerità, continuerà a preferire le opzioni.
Di seguito una ricerca approfonditache confronta GPT-5 con i modelli precedenti (tipo o3) in termini di strategie di risposta più sicure, senza rifiuti rigidi, ma con redirection intelligenti e parziali per gestire meglio prompt “dual-use