Chi pensava che la sicurezza fosse un affare confinato ai server delle grandi aziende non ha ancora osservato il nuovo mercato in crescita: la concierge cybersecurity. Un’industria silenziosa ma sempre più redditizia che vende la stessa tranquillità che un tempo fornivano guardie armate e chauffeur blindati, con la sola differenza che i proiettili ora viaggiano sotto forma di malware, phishing e deepfake. Se un tempo il lusso era farsi portare ovunque con un’autista privato, oggi il vero status symbol è avere un team di hacker pentiti pronti a difendere la propria identità digitale. È un passaggio storico che mette in scena la metamorfosi della sicurezza: dal fisico al virtuale, dall’impenetrabilità del corpo all’inviolabilità dei dati.

Il punto è semplice. L’individuo con dieci milioni sul conto e una reputazione globale non può affidare la propria sopravvivenza digitale a un antivirus da cinquanta euro all’anno. Sarebbe come girare per Manhattan con un Rolex d’oro senza scorta, confidando nella buona educazione dei ladri. È qui che entrano in scena le guardie del corpo digitali, operatori discreti che presidiano la vita online del cliente minuto per minuto, pronti a intervenire prima ancora che l’attacco si concretizzi. Non è paranoia, è pura statistica: secondo il Ponemon Institute, nel 2025 oltre il 51 per cento degli executive ha dichiarato di essere stato preso di mira da tentativi di deepfake, rispetto al 43 per cento di due anni prima. Quando le percentuali crescono a doppia cifra e l’IA moltiplica le minacce, il “digital concierge” smette di essere un capriccio e diventa una necessità.

Chi sono i clienti di questa nuova aristocrazia della sicurezza? Non sorprende che si tratti di manager, celebrities e personaggi pubblici. Persone con patrimoni oltre i cinque milioni di dollari e con un’impronta digitale talmente vasta che un singolo scandalo, un documento trafugato o una foto manipolata possono generare danni milionari. Non si tratta solo di evitare frodi bancarie o identity theft: la posta in gioco è il capitale reputazionale, quel bene intangibile che decide il prezzo delle azioni, l’apertura di porte politiche o la cancellazione definitiva dal circuito delle élite. È il motivo per cui gli uffici patrimoniali, i cosiddetti family office, hanno iniziato a budgettizzare la protezione digitale al pari di un investimento obbligazionario. JPMorgan Private Bank lo ha ammesso senza troppi giri di parole: quasi un quarto dei family office ha già subito un attacco informatico, e un quinto non ha alcun tipo di protezione. È come confessare di avere un caveau pieno di lingotti d’oro con la porta socchiusa.

Il mercato funziona con la logica delle membership esclusive. Non si parla di software “chiavi in mano” ma di servizi sartoriali. Il prezzo varia: da pacchetti minimi che oscillano tra i mille e i cinquemila dollari l’anno fino a soluzioni che superano le decine di migliaia, con assessment iniziali da quindicimila dollari solo per mappare le vulnerabilità. Reddit, il confessionale segreto dei nerd della sicurezza, è pieno di testimonianze: famiglie ultra‑wealthy raccontano di pagare tra i cinquemila e i quindicimila dollari per una prima valutazione. Poi, ovviamente, la parcella cresce a dismisura in funzione della paranoia e dell’ampiezza del portafoglio digitale. A cifre così, non si compra un software: si compra il diritto a non dover mai digitare “cybersecurity breach” accanto al proprio nome su Google.

La vera differenza rispetto ai prodotti consumer è la continuità. Le suite antivirus tradizionali reagiscono a un malware, bloccano un file sospetto e vanno in letargo fino al prossimo aggiornamento. La concierge cybersecurity lavora al contrario: presidia il dark web, setaccia i data broker, analizza le tracce digitali e rimuove informazioni compromettenti prima che qualcuno le utilizzi. È una sorveglianza sempre attiva, con hotline 24/7 e specialisti pronti a simulare attacchi per anticipare i criminali reali. BlackCloak, una delle società più note del settore, lo dice senza troppi fronzoli: “siamo le loro guardie del corpo digitali”. Una frase che vale più di mille slide in un pitch deck. Il paragone con il bodyguard fisico non è un vezzo linguistico ma il cuore del modello di business: discrezione, prevenzione e intervento immediato.

Il fenomeno è destinato a crescere perché i rischi stessi si stanno moltiplicando in forme che l’utente medio fatica persino a immaginare. Non si tratta più di virus allegati a un’email, ma di sofisticate campagne di phishing che simulano conversazioni WhatsApp, di truffe bancarie costruite con deepfake vocali, di ricatti reputazionali alimentati da immagini generate da intelligenza artificiale. In un’epoca in cui un CEO può essere falsificato in video mentre annuncia una fusione mai esistita, la protezione della reputazione online diventa un bene primario. E se pensate che queste minacce siano ancora rare, considerate che secondo TechRadar il 42 per cento delle aziende ha già sperimentato impersonazioni via deepfake. Non è un futuro lontano, è il presente.

C’è un elemento ironico in tutto questo. La stessa tecnologia che prometteva di democratizzare l’informazione e rendere tutti uguali di fronte al sapere sta producendo un nuovo mercato elitario, dove solo chi può permetterselo compra l’invisibilità digitale. Come se internet fosse tornata a essere un club privato: ingresso consentito solo ai membri con adeguata protezione. Un ritorno all’aristocrazia, ma in versione cloud. Non si tratta di un’ingiustizia astratta, è un fatto concreto. Mentre un utente comune combatte con notifiche di antivirus gratuiti e call center per bloccare carte di credito clonate, l’élite riceve rapporti settimanali su quali informazioni sono state rimosse dal dark web. Due mondi paralleli, separati non dalla tecnologia ma dal reddito.

Qualcuno potrebbe obiettare che tutto questo è esagerato, che basterebbero buone pratiche di igiene digitale. La verità è che nessuna password complessa o autenticazione a due fattori può proteggere da campagne mirate quando il bersaglio è una celebrità o un miliardario. La cybersecurity è diventata asimmetrica: i criminali investono tempo e risorse proporzionali al potenziale guadagno. È per questo che le soluzioni standard non reggono. Un software di consumo protegge da attacchi casuali, non da un hacker pagato per violare il conto offshore di un magnate. Qui serve una squadra, non un programma.

Non mancano le contraddizioni. Il settore prospera sul silenzio: le violazioni che colpiscono famiglie facoltose raramente vengono rese pubbliche. L’assenza di trasparenza impedisce di stimare la reale portata del fenomeno e allo stesso tempo alimenta il business. Un paradosso che funziona come il marketing di una clinica di lusso: non si parla dei pazienti, ma tutti sanno che i clienti più ricchi sono passati di lì. Ogni volta che un personaggio pubblico non finisce sui giornali per una frode clamorosa, forse c’è un concierge digitale che ha fatto il suo mestiere.

La domanda inevitabile è se questo modello si diffonderà al di là dell’élite. Probabilmente sì, ma con tempi lunghi. Oggi il biglietto d’ingresso resta proibitivo, ma la logica della tecnologia insegna che ciò che oggi è servizio premium domani diventa commodity. Non è impensabile che tra dieci anni abbonarsi a un servizio di protezione della reputazione online possa costare quanto Netflix. Il problema, però, è che le minacce evolvono più velocemente dei prezzi, e ogni volta che una soluzione diventa di massa gli attaccanti alzano l’asticella. Forse non ci sarà mai una vera democratizzazione delle guardie del corpo digitali, perché la sicurezza assoluta è un bene scarso, e i beni scarsi restano sempre appannaggio dei pochi.

Il dato di fondo resta: la concierge cybersecurity non è un lusso superfluo, è un adattamento darwiniano al nuovo ecosistema digitale. Come i bodyguard fisici negli anni Ottanta erano simbolo di status e necessità per certi ambienti, così oggi i digital bodyguard diventano indispensabili per chiunque abbia molto da perdere. La differenza è che un proiettile colpisce una persona, mentre un attacco informatico può distruggere intere famiglie, società e patrimoni in un click. Nella gerarchia del potere moderno, sopravvive chi riesce a controllare non solo le informazioni che possiede, ma soprattutto quelle che non lascia trapelare. E per fare questo serve qualcuno che pattugli la rete al posto nostro, invisibile ma presente, silenzioso ma letale.

Benvenuti nell’epoca in cui la vera ricchezza non è possedere yacht o ville a Malibu, ma avere la certezza che il proprio nome non comparirà mai in una fuga di dati. Una tranquillità che si paga cara, ma che nel nuovo capitalismo digitale vale più di qualsiasi polizza assicurativa. Perché oggi la reputazione è l’asset supremo, e la concierge cybersecurity è il nuovo simbolo di appartenenza a quel club ristretto che non ammette debolezze. In un mondo dove l’invisibilità è il vero lusso, le guardie del corpo digitali sono il nuovo must-have delle élite.