Il capitalismo ha sempre vissuto di contratti sociali impliciti. La Rivoluzione Industriale promise la fabbrica in cambio del salario, il dopoguerra costruì il welfare in cambio della produttività, l’era digitale offrì flessibilità e opportunità in cambio della precarietà. Ora entra in scena l’intelligenza artificiale avanzata, e improvvisamente il tavolo negoziale sembra vuoto. Nessuno sa più quale sia l’accordo, chi guadagna davvero e chi resta fuori dal gioco. E non lo dicono soltanto attivisti o sindacalisti nostalgici. Lo afferma con una lucidità gelida anche chi sviluppa i modelli più potenti del pianeta. Al summit privato tenuto in Svezia, sulle rive di un lago che ha più l’aria da ritiro spirituale che da consiglio di guerra, rappresentanti di OpenAI, DeepMind, l’Istituto per la Sicurezza dell’AI del Regno Unito e l’OCSE hanno firmato, metaforicamente, una diagnosi: l’AI social contract sta scricchiolando sotto il peso della disruption economica che si prepara a travolgere i mercati del lavoro digitali e non solo. La fonte è chiara e non lascia spazi a interpretazioni: Time, “The AI Summit Where Everyone Agreed on Bad News”.
Chi si aspettava toni trionfali, visionari, la retorica da Davos con slide e metafore zuccherose sul futuro radioso, è rimasto deluso. La narrazione si è incrinata. Al posto dell’ottimismo, si è respirata una sorta di preoccupazione sobria, quasi burocratica, ma ancora più inquietante perché priva di pathos. Quando i costruttori di un’arma ti dicono che l’impatto sarà destabilizzante, è meglio credergli. Hanno discusso di lavoro, di tassazione, di redistribuzione. Temi vecchi come Marx e Adam Smith, ma aggiornati al ritmo di ChatGPT e dei transformer multimodali. Non si è parlato tanto di sicurezza tecnica o allineamento morale delle macchine, quanto del lato sporco della faccenda: chi perderà lo stipendio, chi controllerà i flussi di ricchezza e quanto velocemente la forbice sociale si allargherà.
C’è un paradosso evidente. Per anni si è detto che l’automazione avrebbe divorato il lavoro manuale e ripetitivo. L’operaio, il magazziniere, l’autista di autobus. Ora, invece, tocca alle professioni bianche, a quelle scrivanie che si sentivano intoccabili perché immerse nella complessità del linguaggio e della conoscenza. Avvocati, consulenti, analisti finanziari, giornalisti, persino programmatori. Il software divora se stesso. E mentre accade, la domanda resta sospesa: a chi andranno i benefici della produttività straordinaria che l’AI libera? Alle grandi corporation tecnologiche con bilanci già gonfi di liquidità, o alle masse che vedono ridursi la necessità di vendere il proprio tempo in ufficio?
Sam Altman, che certo non è un sovversivo bolscevico, ha già dichiarato più volte che i governi devono muoversi subito per gestire la transizione. Demis Hassabis ha riecheggiato lo stesso monito, senza mezzi termini. Non si tratta più di utopie accademiche o slogan radicali: il reddito universale di base, nuove forme di tassazione sui profitti generati dalle piattaforme di intelligenza artificiale, un ridisegno del fisco a misura di algoritmo. Idee che fino a ieri sembravano fantascienza oggi vengono prese in considerazione nelle riunioni private di chi muove miliardi di dollari. L’ironia è che l’élite tecnologica, accusata di cinismo e arroganza, appare più consapevole dei rischi concreti dell’AI rispetto a gran parte dei governi nazionali, troppo lenti, burocratici e preoccupati delle prossime elezioni per guardare oltre i prossimi due anni.
La questione centrale è che la disruption economica dell’AI non è un’ipotesi remota. È già iniziata. Aziende riducono team legali perché un modello linguistico può scrivere bozze di contratti. Agenzie di comunicazione licenziano copywriter perché un generatore testuale produce slogan più rapidi. Fondi di investimento sperimentano algoritmi capaci di sostituire intere squadre di analisti. Questo non è il futuro, è cronaca. E come ogni rivoluzione tecnologica, l’onda non arriva uniformemente ma a strappi, colpendo un settore prima di altri, destabilizzando equilibri locali, accelerando in maniera asimmetrica. Il problema è che il sistema politico e sociale non ha ancora predisposto ammortizzatori né nuove regole del gioco.
Il concetto di AI social contract diventa allora cruciale. Significa ridefinire il patto implicito tra cittadini, governi e imprese nell’era dell’intelligenza artificiale. Senza un nuovo patto, la frattura diventerà insanabile. Perché se la ricchezza generata dall’AI finisce concentrata nelle mani di pochi giganti globali, mentre milioni di lavoratori vedono erodere la propria utilità economica, il risultato non sarà soltanto un po’ più di disuguaglianza. Sarà una crisi sistemica. E non servono citazioni da Marx per capirlo: basta guardare le tensioni politiche degli ultimi anni, l’ascesa del populismo alimentato da precarietà e sfiducia. Ora immaginate quegli stessi fenomeni con la potenza moltiplicatrice dell’AI.
Al summit svedese si è raggiunto un raro consenso. Non c’era la solita divisione tra accademici prudenti e imprenditori aggressivi. Tutti, da ricercatori a policymaker, hanno riconosciuto che la questione non è se arriverà la disruption, ma come sarà gestita. Questo sposta il dibattito da un terreno teorico a uno pratico. In altre parole, il conto arriva al tavolo e non c’è modo di evitarlo. La differenza sarà se a pagarlo saranno in pochi o in molti.
La tassazione è un altro nodo esplosivo. Come si tassa un modello di intelligenza artificiale che produce valore in modo diffuso, in cloud, senza confini nazionali? I sistemi fiscali tradizionali, basati sulla localizzazione fisica di stabilimenti e uffici, appaiono già obsoleti. Si parla di imposte sui profitti algoritmici, di dividendi tecnologici redistribuiti come nuovo welfare. Idee rivoluzionarie, certo, ma anche piene di contraddizioni pratiche. Eppure la domanda di fondo resta: possiamo davvero permetterci di lasciare che i mercati del lavoro digitali collassino senza una rete di protezione?
Chi si illude che si tratti solo di scenari pessimisti dovrebbe rileggere la cronaca recente. L’AI ha già dimostrato di poter destabilizzare la politica attraverso la manipolazione delle informazioni, ora minaccia di destabilizzare l’economia attraverso la ridefinizione del lavoro. La combinazione è esplosiva. Non c’è bisogno di catastrofismo, basta la matematica. Se la produttività aumenta a ritmi esponenziali ma i redditi della maggioranza stagnano o calano, la curva non si chiude. Ed è qui che il summit in Svezia diventa interessante: non un simposio di futurologi eccentrici, ma una sorta di consiglio di amministrazione dell’economia globale che ammette, finalmente, che il gioco rischia di sfuggire di mano.
Il tono del dibattito segna una svolta. Non si parla più di rischi lontani da gestire con calma. Si parla di rischi imminenti, reali, che richiedono interventi rapidi. La narrativa dell’AI come “tool di supporto” o come “assistente” sembra evaporare. Inizia a prendere forma l’idea dell’AI come forza economica autonoma, capace di ridisegnare la geografia del potere globale. Il paradosso è che proprio gli architetti di questa tecnologia appaiono oggi i più preoccupati delle sue conseguenze.
C’è un aspetto quasi comico, se non fosse tragico. Per decenni le imprese tecnologiche hanno predicato l’ottimismo californiano, il mito del progresso inevitabile, il mantra che ogni innovazione avrebbe portato più opportunità. Oggi le stesse voci ammettono che l’AI rischia di destabilizzare la società se lasciata a se stessa. La religione del progresso illimitato ha iniziato a dubitare dei propri dogmi. E forse questa è la vera notizia che il summit di Svezia consegna al mondo: la disillusione è arrivata al centro del potere tecnologico.
Chi osserva con cinismo potrebbe dire che questo allarme è solo un modo per legittimare ancora più potere politico per le grandi aziende, che così potranno presentarsi come partner indispensabili dei governi. È possibile. Ma resta il fatto che il problema è concreto. Le regole attuali non reggeranno all’impatto dell’intelligenza artificiale generativa e del machine learning su scala planetaria. La scelta non è tra intervento e non intervento. La scelta è tra intervento disordinato e improvvisato o intervento ragionato e pianificato.
E se tutto questo sembra esagerato, ricordiamoci di un dettaglio: al summit non erano presenti filosofi visionari o attivisti radicali. C’erano i dirigenti delle aziende che guidano lo sviluppo globale dell’AI, i funzionari dell’OCSE, gli esperti del governo britannico. Un’élite sobria e conservatrice, non certo incline a isterie. Il fatto che abbiano trovato un consenso così netto sul rischio imminente dovrebbe togliere il sonno a chiunque abbia a cuore la stabilità economica e politica del prossimo decennio.
TIME https://time.com/7313344/openai-google-deepmind-summit-social-contract-inequality