Staying ahead in the age of AI

Avviso ai naviganti: non si tratta di un inno alla supremazia delle macchine, ma della testimonianza di un Technologist sopravvissuto, intrappolato tra slide abbaglianti, promesse roboanti e buzzword che si accalcano in ogni corridoio aziendale come tifosi in curva. La parola d’ordine negli uffici oggi è intelligenza artificiale, declinata in tutte le salse possibili, dal marketing alle risorse umane, ma la realtà spesso somiglia più a un episodio comico di improvvisazione che a una rivoluzione tecnologica studiata nei minimi dettagli.

La corsa forsennata dell’AI e la magia dei KPI improvvisati non ha precedenti. Si leggono dati da far girare la testa: la crescita dei modelli “frontier scale” è aumentata di oltre cinque volte in pochi anni, mentre i costi di operare modelli come GPT-3.5 sono diminuiti di centinaia di volte. Numeri perfetti per far brillare gli occhi dei board della Silicon Valley e riempire slide luccicanti, ma nella pratica quotidiana delle imprese medie, la maggior parte dei dipendenti ignora cosa significhi davvero AI generativa. Alcuni, peggio ancora, pronunciano “generative AI” come se fosse un incantesimo segreto e non uno strumento di lavoro.

In questo contesto, KPI di adozione fissati con rigore quasi religioso diventano una religione laica: CEO che impongono venti accessi giornalieri a ChatGPT per dipendente, come se l’uso compulsivo garantisse la saggezza. Il culto dell’AI si manifesta più nelle slide che nelle pratiche quotidiane, mentre la domanda cruciale — “a cosa serve realmente?” — rimane sospesa nell’aria come un fumetto muto in un cartoon aziendale.

Da alignment a disallineamento, la lunga marcia verso la “mission” AI rivela un gap culturale drammatico. OpenAI consiglia di allineare leadership, dipendenti e organizzazione con storytelling accattivante e obiettivi misurabili. Tradotto in ufficio reale, significa riunioni di tre ore in cui i dirigenti celebrano l’amore per l’AI mentre gli ingegneri si chiedono se sopravviveranno alla prossima ristrutturazione. L’AI che “potenzia le competenze” è una poesia sulla carta, nella pratica è un campo minato di frustrazione: dover dimostrare di saper usare strumenti senza un reale supporto strategico genera più errori che successi concreti.

La legione dei “champions” e i rituali della formazione sembrano la soluzione: reti interne di esperti, hackathon, sessioni di training mirate. In teoria, un sogno di innovazione digitale, in pratica, un circuito di fatica e stress. “Venerdì dell’innovazione” diventa sinonimo di maratona mentale, con team che cercano di digerire algoritmi complessi mentre tentano di rispettare deadline impossibili. Alcuni, rari, riescono a passare da un tasso di fluency del 14% all’85% in meno di un anno, diventando leggende aziendali alla San Antonio Spurs, ma la norma resta una lenta progressione tra documentazione dispersa e tool adottati a metà.

Amplify o “non sparare sulla propria barca” è un motto che suona bene nei piani strategici. Creare hub di conoscenza, newsletter interne, community di condivisione è la ricetta teorica. In realtà, le best practice finiscono in documenti PDF ignorati, newsletter diventano spam e centri di eccellenza rimangono roccaforti dove pochi illuminati discutono metriche, mentre il resto dell’azienda arranca con strumenti instabili, cercando di non far saltare l’infrastruttura.

Accelerate è la parola che risuona in ogni board: muoversi in fretta, rimuovere ostacoli, facilitare accesso agli strumenti e creare consigli esecutivi per sbloccare progetti. Peccato che il collo di bottiglia reale sia spesso tecnico e culturale: infrastrutture legacy, skill gap, mancanza di supporto concreto. Come CTO, si vive in equilibrio instabile, tra esperimenti rischiosi e tentativi di far sembrare tutto fluido agli occhi dei dirigenti. Efficienze apparenti vengono premiate, ma il costo reale degli errori e della confusione generata spesso rimane invisibile fino a quando non diventa un problema serio.

Curiosità interessante: negli ultimi due anni alcune startup hanno adottato AI generativa come “chief innovation officer” simbolico, con risultati più psicologici che concreti. La leadership tecnologica, in questi casi, diventa un esercizio di persuasione continua, dove la cultura digitale viene modellata più dalla narrativa che dagli strumenti reali. La vera rivoluzione non è solo nella tecnologia, ma nella capacità di creare un ecosistema in cui l’AI non è una moda ma un asset integrato.La trasformazione culturale rimane la sfida più ardua: entusiasmo mal indirizzato, skill superficiali e pressione per innovare a tutti i costi creano un mix esplosivo.

La guida OpenAI fornisce un framework valido, ma non sostituisce leadership onesta, pazienza e buon senso. La cultura aziendale deve evolvere con altrettanta rapidità dei modelli AI, o la magia si trasforma in caos.In conclusione pragmatica: il vero rischio dell’AI non è la tecnologia, ma la gestione dell’illusione che può creare.

La rivoluzione digitale non ha bisogno di slide scintillanti, ma di leadership che sappia distinguere tra hype e valore reale. Solo chi naviga con ironia e cinismo, senza perdere il senso pratico, sopravviverà all’era AI. Per chi resta, il viaggio sarà un intricato mix di magia tecnologica, errori inevitabili e qualche lampo di genio improvviso.