Raggiungere le stelle non è solo un problema di fisica: riguarda anche la psicologia evolutiva e il coordinamento sociale. Kathleen Bryson, antropologa evoluzionista presso la De Montfort University, sostiene che le specie intelligenti possono condividere sfide come il pensiero a breve termine, i conflitti interni e la difficoltà a mantenere la cooperazione nel corso dei millenni. Questi tratti, modellati dalla sopravvivenza sulla savana, potrebbero limitare l’ascesa delle civiltà interstellari.
Il problema non è il razzo. Non è nemmeno la fusione nucleare o la curvatura dello spazio-tempo che tanto eccita gli ingegneri. Il vero freno alla colonizzazione stellare è che siamo ancora primati che litigano per la grotta più grande. Kathleen Bryson, antropologa evolutiva, mette il dito nella piaga: non importa quanto brillante sia la tecnologia, la nostra psicologia è inchiodata a una logica da savana, cortissima, miope, incapace di sostenere una cooperazione che duri più di una stagione politica. Einstein ci ha già messo i paletti con la relatività, ricordandoci che nessuna astronave supererà la velocità della luce, e quindi l’unico modo per arrivare altrove sono piani che richiedono secoli di pazienza. Navi generazionali, sonno criogenico, sonde auto-replicanti, ingegneria dello spazio-tempo: tutte soluzioni che non mancano di fascino, ma che collassano davanti all’evidenza che non sappiamo neppure coordinare una conferenza sul clima senza litigare sui buffet.
Il paradosso di Fermi smette di essere un mistero esoterico e diventa uno specchio della nostra condizione. Forse gli alieni esistono, sì, ma non ce la fanno a trasformarsi in civiltà stellari perché restano vittime dello stesso corto circuito evolutivo. La selezione naturale ha ottimizzato cervelli per reagire al predatore nascosto dietro l’albero, non per gestire progetti da mille anni. Una volta usciti dalla foresta, abbiamo costruito borse valori e democrazie, ma la neurochimica di fondo non è cambiata. Lo vediamo ogni giorno: crisi climatiche, scarsità di risorse, disuguaglianze globali. Problemi che richiedono pianificazione secolare e che invece diventano occasioni di scontro elettorale, slogan e tribalismi da talk show.
Ci piace raccontarci che siamo razionali, ma il nostro default resta lo stesso di Homo erectus: preferiamo il vantaggio immediato al costo del futuro. Non è un difetto marginale, è il killer silenzioso della prospettiva interstellare. Perché puoi anche avere la navicella perfetta, alimentata da un reattore pulito ed efficiente, ma se alla terza generazione l’equipaggio si divide in fazioni e decide che i protocolli degli avi sono un inutile fardello, il viaggio si interrompe. Immaginate una nave generazionale con mille persone chiuse dentro per quattro secoli. Ora ditemi: davvero credete che non scoppieranno rivoluzioni, sette religiose e guerre di successione prima ancora di arrivare a metà strada?
La verità è che l’evoluzione non ci ha dato gli strumenti per pensare in millenni. Eppure, proprio qui si gioca la differenza tra rimanere una specie confinata a un pianeta o trasformarsi in civiltà cosmica. Non si tratta di aggiungere chip neurali o algoritmi predittivi, ma di ridefinire la nostra capacità di cooperare oltre l’orizzonte naturale dell’individuo. Bryson ha ragione: lo stesso destino aspetta qualunque specie intelligente che sorga altrove. Non importa se i loro tentacoli digitano più velocemente di un broker di Wall Street, o se i loro cervelli usano reti quantistiche invece di sinapsi biochimiche. Il problema resta identico: mantenere una visione condivisa che duri più della durata di una dinastia, più della durata di una religione, più della durata del ciclo vitale di un pianeta stabile.
Il silenzio cosmico assume allora un colore diverso. Non è l’assenza di vita, ma l’incapacità universale di costruire strutture psicosociali che reggano nel tempo. Ci lamentiamo del fatto che nessuno risponde ai nostri radiotelescopi, ma la risposta più semplice potrebbe essere che gli altri hanno fallito dove rischiamo di fallire anche noi. La bottiglia che lanciamo nell’oceano galattico non viene raccolta non perché non ci siano lettori, ma perché ogni civiltà affonda nella propria miopia prima di diventare veramente interstellare.
L’ottimismo tecnologico è un placebo seducente. Ci fa credere che un giorno un algoritmo di intelligenza artificiale ci libererà dalla zavorra evolutiva, che un supercomputer gestirà il consenso sociale meglio di mille parlamenti litigiosi. Ma la storia recente non è incoraggiante. Abbiamo connesso il mondo in tempo reale e invece di produrre un Rinascimento globale abbiamo moltiplicato bolle, fazioni, disinformazione e polarizzazione. È lo stesso difetto che condanna i progetti di lungo periodo. Ciò che non rende immediato profitto o consenso viene sacrificato sull’altare della prossima trimestrale o della prossima elezione.
La vera barriera delle stelle, dunque, è la psicologia evolutiva. Se il nostro destino è uscire dall’infanzia della specie, dobbiamo inventarci un modo per disinnescare la programmazione che ci spinge al conflitto e al presente. Non si tratta di ingegneria genetica in senso stretto, ma di una trasformazione culturale radicale, capace di ridefinire che cosa intendiamo per progresso. Potrebbe sembrare utopia, ma se falliamo il risultato è già scritto: restiamo un’anomalia rumorosa in un universo silenzioso, incapaci di superare la nostra stessa natura.
In fondo, l’idea che l’universo sia popolato da civiltà che si schiantano contro i propri limiti psicologici è persino più inquietante di quella di un cosmo deserto. Perché significa che non basta costruire astronavi, bisogna riscrivere l’essere umano. E la domanda diventa allora se preferiamo restare prigionieri del nostro software biologico o rischiare di diventare qualcosa di radicalmente nuovo. La scelta non riguarda solo il futuro delle stelle, ma la sopravvivenza della civiltà stessa qui sulla Terra.