Apple è diventata improvvisamente la studentessa ansiosa che si accorge di aver dimenticato i compiti il giorno dell’esame. Dopo anni a difendere l’immagine di Siri come “voice assistant” pionieristico, Cupertino ha dovuto guardare in faccia la realtà: ChatGPT, Gemini e persino Perplexity hanno trasformato la ricerca vocale e l’interazione con l’intelligenza artificiale in qualcosa che non è più un giocattolo, ma un’infrastruttura critica del digitale. Così, ecco arrivare il colpo di scena degno di una serie HBO: Apple starebbe testando Gemini, il modello AI di Google, per rianimare Siri con quello che internamente viene chiamato “World Knowledge Answers”.
L’ironia è palpabile. L’azienda che per anni ha evitato di nominare la parola “AI” come se fosse un termine volgare, adesso si ritrova a bussare alla porta del suo storico partner-rivale. La stessa Apple che incassa circa 20 miliardi di dollari l’anno perché Google sia il motore di ricerca predefinito su Safari, oggi valuta di affidare a Mountain View il cuore della sua intelligenza artificiale vocale. Non è esattamente il tipo di storytelling che un marchio ossessionato dal controllo ama raccontare.
Il problema è che Siri è rimasta ancorata a un paradigma vecchio di un decennio. Spotlight, a un certo punto, sembrava pronto a diventare il coltellino svizzero in grado di insidiare Google, offrendo risposte su film, musicisti e attori. Poi è arrivata l’ondata dei chatbot generativi, e improvvisamente quell’illusione si è frantumata. Oggi un utente si aspetta che l’assistente digitale non solo capisca la domanda, ma sintetizzi informazioni, mostri contenuti multimediali, integri punti di interesse locali e lo faccia in tempo reale, senza il fastidioso passaggio su Wikipedia. Apple ha provato a dire che la nuova Siri sarà “più personale”, capace di accedere ai dati privati dell’utente per pianificare azioni, interpretare schermate e persino suggerire attività. Ma tra il promettere e il mantenere, il passo è più grande dell’autonomia che Cupertino ha dimostrato nel campo AI.
Il vero nodo è strategico. Apple si trova a un bivio imbarazzante: puntare sui propri modelli, con il rischio di lanciare un prodotto che sfigura davanti a ChatGPT o Gemini, oppure affidarsi a un rivale che dominerà comunque la narrativa. La scelta di testare Gemini sembra una confessione silenziosa: da sola, Apple non è pronta. Ed è un’ammissione che pesa, perché la reputazione dell’azienda si fonda proprio sull’essere sempre “ahead of the curve”.
Chi si illude che questo sia solo un dettaglio tecnico non coglie la portata del problema. Siri non è più un optional: è l’interfaccia attraverso cui milioni di utenti vivono l’iPhone. Se questa interfaccia appare obsoleta o inefficace, l’intero ecosistema perde attrattiva. Un assistente che non sa assistere è il più pericoloso dei buchi nell’esperienza utente, soprattutto in un’epoca in cui l’interazione naturale è diventata il metro con cui si misura l’innovazione.
Il progetto “World Knowledge Answers” è l’ammissione che Apple non può permettersi di lasciare a Google e OpenAI il monopolio dell’AI-powered search. L’idea di trasformare Siri in un hub capace di generare sintesi da fonti web, arricchite con immagini, video e contenuti locali, è la traduzione tardiva di ciò che altri hanno già reso quotidiano. Cupertino spera di colmare il gap entro il 2026, una data che suona più come un rinvio a giudizio che come un’innovazione imminente. Nel frattempo, i rivali continueranno a evolvere i loro modelli con una velocità che rende rischioso qualsiasi ritardo.
Il dettaglio più ironico? Apple starebbe persino valutando Anthropic e il suo Claude come alternativa per il “planning system” di Siri. Tradotto: Cupertino si affaccia al mercato come uno studente che non sa quale tesina copiare, valutando di volta in volta chi gli offre il compito meglio scritto. Per un brand che ha costruito il proprio mito sul “think different”, non è esattamente un bel biglietto da visita.
Si potrebbe dire che il matrimonio tra Apple e Google in questo campo rappresenti un “patto col diavolo”. Da un lato, Gemini garantisce qualità e immediatezza, evitando ad Apple l’umiliazione di lanciare un prodotto mediocre. Dall’altro, però, la dipendenza da un rivale diretta rischia di consolidare ancora di più l’egemonia di Google sul search, proprio quando Apple aveva la possibilità di presentarsi come l’alternativa. È come se per vincere la gara Apple si fosse convinta che l’unico modo fosse salire sul carro del vincitore.
Gli utenti si accorgeranno? Probabilmente sì. Perché nel momento in cui Siri inizierà a rispondere con sintesi generative dettagliate e multimediali, l’esperienza sarà radicalmente diversa. Ma sotto la superficie resterà la domanda cruciale: chi controlla davvero quella conoscenza? Se è Gemini a generare le risposte, la narrativa di Apple come “custode della privacy e dell’indipendenza” vacilla. E con essa, il brand equity che Cupertino ha difeso con le unghie per anni.
Il paradosso finale è che la nuova Siri potrebbe risultare eccellente proprio grazie alla tecnologia di un concorrente. Ma eccellente a chi conviene? Agli utenti, certo. A Google, senza dubbio. Ad Apple, invece, conviene solo se riesce a trasformare questa dipendenza temporanea in un trampolino di lancio per sviluppare modelli proprietari competitivi. Se invece la partnership diventa una stampella permanente, Cupertino rischia di trasformarsi in un integratore elegante delle intelligenze altrui. E questo, per un’azienda che ha fatto dell’autosufficienza un culto, ha il sapore di una resa mascherata.