Donald Trump ha trovato il nuovo capro espiatorio universale: l’intelligenza artificiale. Non bastavano più i “fake news media” o le cospirazioni globali, ora la colpa potrà sempre essere scaricata su un algoritmo. Davanti alle telecamere, commentando il video in cui si vede un misterioso sacco nero lanciato da una finestra della Casa Bianca, l’ex presidente ha dichiarato che si tratta “probabilmente di un contenuto generato dall’AI”. Peccato che un funzionario avesse già confermato l’autenticità del filmato. Poi l’affondo, con il suo marchio di fabbrica: “Se succede qualcosa di veramente grave, forse darò semplicemente la colpa all’intelligenza artificiale”.

La mossa è geniale e grottesca allo stesso tempo. Da un lato cavalca l’ansia collettiva sul deepfake, trasformando l’AI in un comodo paravento per negare la realtà. Dall’altro inaugura un nuovo filone politico: lo scaricabarile tecnologico. Non più “i cinesi ci rubano il lavoro”, ma “i modelli ci falsificano la vita”. È un ribaltamento narrativo che, con il suo consueto stile teatrale, Trump trasforma in slogan pronto a penetrare nell’immaginario collettivo. Se ieri bastava urlare “fake news” per screditare prove e fatti, domani basterà dire “è colpa dell’AI” per dissolvere ogni responsabilità.

Il paradosso è che l’ex presidente non fa altro che amplificare il problema che dice di denunciare. Più si alimenta l’idea che qualsiasi evidenza possa essere manipolata digitalmente, più si erode la fiducia sociale nella verità condivisa. È il trionfo del dubbio tossico, dove la realtà diventa opzionale e il sospetto è la nuova moneta politica. In questo senso, la battuta di Trump non è solo una boutade da conferenza stampa, ma un segnale sinistro di come l’AI rischia di diventare lo scudo perfetto per chi non vuole rendere conto delle proprie azioni.