Cernobbio è stata ancora una volta il palcoscenico di verità scomode. Lo studio Amazon-Teha appena presentato mette nero su bianco quello che molti investitori sanno già: la Spagna attrae il 60% in più di capitali esteri rispetto all’Italia. Tradotto in cifre, tra il 2015 e il 2024 Madrid ha raccolto 304 miliardi di euro di investimenti diretti esteri (IDE), contro i 191 miliardi di Roma. Un divario da 113 miliardi che non è frutto del caso, ma di differenze strutturali sempre più evidenti.
Italia e Spagna condividono basi economiche paragonabili e una vicinanza culturale che dovrebbe garantire traiettorie di crescita simili. Eppure, il confronto rivela un’Italia in ritardo: 856 progetti greenfield in Spagna hanno creato oltre 72.000 posti di lavoro, mentre i 303 progetti italiani si sono fermati a circa 40.000. Numeri che raccontano un Paese capace di attrarre meno della metà delle opportunità dei suoi vicini.
La lentezza cronica del sistema giudiziario italiano è uno degli ostacoli più citati dagli investitori. Una causa civile in Spagna si chiude in media in 275 giorni, in Italia servono 527. Quasi il doppio. Nel frattempo, i capitali guardano altrove: perché la certezza del diritto vale quanto (se non più di) un bonus fiscale.
Il quadro regolatorio spagnolo ottiene punteggi più alti, anche se l’Italia vanta una leggera velocità in più nelle pratiche d’impresa. Ma a fare davvero la differenza è la qualità dei servizi pubblici digitali, dove Madrid supera Roma senza affanno. E i costi energetici? Ancora un gap: 166,6 €/MWh in Spagna contro i 252,9 €/MWh in Italia. In tempi di transizione energetica, un handicap competitivo pesantissimo.
Il tasso di partecipazione al lavoro in Spagna è all’80,2%, in Italia appena al 71,7%. E mentre i salari reali italiani sono diminuiti del 3,3% dal 2000 al 2023, quelli spagnoli sono cresciuti del 4,9%. Se aggiungiamo un cuneo fiscale del 45,1% (Italia) contro il 40,2% (Spagna), la conclusione è chiara: investire in Italia costa di più e rende di meno.
Entrambi i Paesi investono poco in istruzione superiore (meno del 5% del PIL), ma la Spagna ha saputo trasformare la propria forza lavoro in maggiore produttività: +3,2% contro il -2,6% italiano. L’Italia resta insomma il Paese del “potenziale inespresso”: eccellenze manifatturiere e creatività diffuse, frenate da rigidità strutturali e regole punitive.
La fotografia è impietosa: mentre la Spagna si presenta agli investitori come una piattaforma affidabile, digitale ed energeticamente più conveniente, l’Italia appare come un puzzle incompiuto, in cui la burocrazia e la fiscalità eccessiva vanificano i punti di forza.
E se è vero che lo studio propone soluzioni concrete, dalla digitalizzazione della PA alla semplificazione normativa, fino a incentivi mirati per innovazione e attrazione di talenti, resta un dettaglio non trascurabile: serve la volontà politica di attuarle.
L’Italia, lo sappiamo, non manca di idee né di talenti, ma di quella parolina magica che gli investitori internazionali vogliono sentirsi ripetere: certezza. Certezza delle regole, dei tempi, dei costi. Finché non riusciremo a toglierci da torno questi lacci e lacciuoli, il rischio è che Madrid continui a incassare investimenti mentre Roma si limiti a guardare il tabellone, sperando in un pareggio all’ultimo minuto e poi di giocarsela ai tempi supplementari.