Il paradosso è servito: dopo averci inchiodato agli schermi, la Silicon Valley ha deciso che è il momento di restituirci la vista, ma solo per occupare le nostre orecchie. Huxe nasce da questa intuizione, un’app che non si limita a leggere le notizie ma le trasforma in un talk show perpetuo con conduttori artificiali pronti a intrattenerti, informarti, distrarti e soprattutto a impedirti di pensare in silenzio. Tre ex Googler, con pedigree da NotebookLM, hanno capito che il vero tesoro non è nei documenti che l’AI riassume, ma nel rumore di fondo che accompagna le nostre giornate. Un sottofondo che somiglia molto a una radio personalizzata, ma con la differenza sostanziale che non c’è alcun umano dietro al microfono.
La cifra che hanno già convinto investitori di prima categoria a staccare, 4.6 milioni di dollari, racconta meglio di mille pitch la fame di prodotti che colonizzino il tempo morto dell’utente. Le code per prendere il caffè, le docce mattutine, persino le passeggiate del cane diventano il nuovo terreno di conquista. Raiza Martin e soci hanno visto che le persone non vogliono tanto chattare con un assistente virtuale, quanto farsi raccontare storie, spiegare trend, ascoltare una cronaca economica in forma di podcast al volo. La voce ha un potere ipnotico che il testo non ha, e l’AI sintetica ci sussurra che possiamo sapere tutto senza leggere nulla.
Huxe si presenta come una “live station” per qualunque argomento. Tecnologia, sport, gossip o macroeconomia: basta scegliere e la macchina confeziona un palinsesto infinito, aggiornato costantemente, con la promessa che non ti perderai mai l’ultima breaking news. La vera innovazione è che questa stazione non è una playlist statica, ma un flusso dinamico che si aggiorna e si rimescola a seconda delle fonti. Qui si intravede la strategia: più tempo passato in ascolto equivale a più dati, più profiling, più potere. Non a caso il linguaggio degli investitori parla di “engagement” e “daily habit formation”, che in italiano suona molto meno elegante: dipendenza quotidiana.
NotebookLM aveva già aperto la strada, mostrando che la combinazione tra grandi modelli linguistici e produzione audio poteva diventare un assistente di ricerca travestito da radio educativa. Huxe spinge la logica oltre, eliminando lo schermo e trasformando ogni momento in un potenziale touchpoint pubblicitario e cognitivo. La vera ironia? L’AI non si limita a sintetizzare i contenuti, ma ne diventa il commentatore, l’analista, il conduttore. Ciò che fino a ieri richiedeva giornalisti, speaker, ricercatori e producer, ora viene erogato in tempo reale da un algoritmo. La professionalità sostituita dall’immediatezza.
Il rischio evidente è che la qualità del contenuto si diluisca. Un podcast generato al volo non ha il tempo di metabolizzare complessità, di cucire un filo narrativo o di inserire la pausa drammatica che rende un racconto memorabile. Ma forse la domanda stessa è cambiata: non cerchiamo più profondità, cerchiamo compagnia. Huxe, come un Netflix audiofonico, promette di riempire il silenzio. In un certo senso è il trionfo del capitalismo cognitivo, che trasforma anche i nostri vuoti in spazi da colonizzare. Se il tempo è denaro, il tempo di ascolto è oro.
La competizione non manca. ElevenLabs spinge sulla clonazione vocale, Oboe lavora sull’audio generativo, Google e Meta osservano e sperimentano. Ma il mercato è ancora in una fase preistorica, con margini di crescita enormi. India, ad esempio, è già un laboratorio con Pocket FM e Kuku FM che permettono a chiunque di creare audiocontenuti grazie all’AI. L’Occidente, più sofisticato e al tempo stesso più distratto, è pronto per una dose quotidiana di podcast sintetici su misura. Huxe vuole diventare la tua radio personale sempre accesa, e in questo non si accontenta di rubare minuti: vuole trasformarsi nel tuo filtro permanente.
C’è poi la questione culturale. Una generazione che impara a informarsi ascoltando bot che discutono tra loro rischia di perdere la differenza tra approfondimento e intrattenimento. È un talk show infinito, ma senza la frizione della realtà. Le AI hosts non litigano davvero, non hanno pregiudizi, non inciampano nelle contraddizioni. Per l’utente medio questo è un vantaggio. Per chi ancora crede che la conoscenza nasca dal conflitto e dal confronto, è un segnale allarmante. Il rischio è che ci abituiamo a un’illusione di pluralismo che in realtà è un monologo sintetico, calibrato per non disturbare mai troppo.
Eppure l’attrattiva è enorme. Immagina di ricevere il tuo briefing quotidiano, basato su email, calendario, newsfeed, e di ascoltarlo mentre ti lavi i denti. Zero frizione, massima efficienza. È la quintessenza della cultura tecnologica che vende come innovazione quello che in realtà è un perfezionamento del multitasking compulsivo. Più che semplificare, aumenta la nostra esposizione a contenuti che non abbiamo mai chiesto davvero. L’AI si trasforma da assistente a regista della nostra dieta informativa.
Huxe è il prototipo perfetto della prossima fase dell’AI consumer. Non più la conversazione sterile con un chatbot, ma un ambiente sonoro costante, intimo e invadente, che si adatta al tuo ritmo vitale. Per alcuni è progresso, per altri è solo la colonizzazione finale del nostro silenzio. Il fatto che investitori come Dylan Field o Jeff Dean abbiano deciso di sostenerlo indica che la scommessa non è tanto tecnologica quanto culturale: se riusciranno a cambiare le nostre abitudini, allora la voce sintetica diventerà la nuova interfaccia dominante. E a quel punto non sarà più solo un’app, ma la colonna sonora del capitalismo algoritmico.