L’intelligenza artificiale è diventata la nuova caffeina del dibattito pubblico, e come ogni sostanza potente scatena due reazioni opposte: entusiasmo sfrenato e paura paranoica. “L’AI ci renderà tutti stupidi?”, chiede una campagna pubblicitaria di Oboe, la startup fondata dagli stessi imprenditori che hanno inventato Anchor, la piattaforma di podcast fai-da-te venduta a Spotify per 150 milioni di dollari. La risposta che i fondatori si danno è secca e tagliente: no. E vogliono dimostrarlo con il loro nuovo progetto, un’educational platform che usa l’intelligenza artificiale per costruire corsi personalizzati su qualsiasi argomento, restituendo la sensazione di un apprendimento guidato ma non passivo.
Nir Zicherman e Mike Mignano non sono esattamente degli sprovveduti. Hanno vissuto dall’interno l’ascesa del podcasting, lo hanno reso scalabile e monetizzabile fino a catturare l’attenzione di Spotify, e poi hanno gestito verticali strategici dentro l’azienda svedese: audiolibri per il primo, la divisione podcast per il secondo. Con Oboe si sono messi in testa una sfida ancora più ambiziosa, perché se convincere milioni di utenti a registrare e pubblicare podcast era un’impresa di democratizzazione dei media, spingere le persone a usare l’AI per imparare in modo intelligente rischia di sembrare un ossimoro.
Il modello di Oboe è semplice sulla carta e complesso nei suoi effetti. Un utente digita un tema qualsiasi, dal Rinascimento italiano alla chimica quantistica, e la piattaforma genera un corso strutturato, con lezioni, approfondimenti, quiz e suggerimenti. Non si tratta della solita scorciatoia da app di microlearning con pillole da tre minuti, ma di un percorso che prova a combinare immediatezza e profondità, sfruttando l’AI come architetto della conoscenza. L’ironia della faccenda è evidente: proprio lo strumento accusato di abbassare il livello di attenzione e di ridurre la capacità critica dovrebbe invece stimolare l’apprendimento più consapevole.
Se qualcuno pensa che sia l’ennesimo progetto effimero cavalcando la moda dell’AI, sbaglia. Gli investitori guardano con interesse, e non solo per la credibilità del team. C’è una consapevolezza crescente che il settore dell’education tech non abbia ancora trovato un modello davvero rivoluzionario. Le piattaforme di e-learning esistono da vent’anni e hanno portato a poco più che biblioteche di video registrati. I MOOC, quei corsi online di massa che promettevano di democratizzare Harvard e Stanford, sono diventati archivi polverosi pieni di contenuti mai completati. Oboe prova a rompere lo schema introducendo un apprendimento reattivo, capace di adattarsi al ritmo, alle curiosità e persino agli errori dell’utente.
La domanda vera è se un sistema del genere possa creare un vantaggio cognitivo o solo l’illusione di imparare. La tentazione di farsi imboccare dall’AI è forte: testi già riassunti, concetti semplificati, percorsi organizzati senza fatica. Zicherman e Mignano insistono sul fatto che Oboe non vuole sostituire lo sforzo intellettuale, ma guidarlo. Un po’ come un allenatore che non corre al posto tuo ma ti spiega come correre meglio. Certo, la metafora regge fino a un certo punto, perché la differenza tra uno strumento che potenzia e uno che infantilizza è sottile. E qui entra in gioco il fattore umano: se l’utente approccia Oboe come un partner di studio, l’esperienza può essere trasformativa. Se invece lo usa come scorciatoia, avrà solo conferma dei timori che l’AI renda pigri e superficiali.
C’è poi un aspetto culturale che rende il progetto affascinante. Anchor aveva reso chiunque potenzialmente un broadcaster. Oboe prova a rendere chiunque un autodidatta. E in un’epoca in cui la formazione tradizionale arranca, incastrata tra burocrazie universitarie e corsi aziendali insipidi, l’idea di un AI tutor personalizzato sembra quasi un atto rivoluzionario. Non è un caso che la campagna pubblicitaria punti dritta al nervo scoperto: la paura di perdere la capacità di pensare. Oboe ribalta la narrativa, trasformandola in una promessa di emancipazione cognitiva.
La strategia è anche spietatamente pragmatica. Con AI education come keyword emergente, il posizionamento della startup tocca uno dei settori più ricchi di potenziale crescita. La generazione Z e i Millennial già vivono immersi in app che promettono skill rapide e certificazioni veloci. Perché non offrire un’esperienza più sofisticata, che usa gli stessi algoritmi di intelligenza artificiale per creare percorsi meno banali? Da qui nasce il magnetismo del progetto, che si inserisce nella tensione tra apprendimento autentico e consumo passivo di contenuti preconfezionati.
Si potrebbe pensare che la scommessa di Oboe sia utopica, eppure la traiettoria di Zicherman e Mignano racconta altro. Hanno già dimostrato che un’idea apparentemente marginale può diventare un prodotto globale con milioni di utenti. Anchor non era nata per sfidare la radio, eppure ha cambiato la radio per sempre. Oboe non è nata per sostituire le università, ma se avrà successo obbligherà le istituzioni educative a rivedere il loro ruolo. Il paradosso è che il mercato dell’istruzione, un settore da miliardi di dollari, è più vulnerabile di quanto sembri, proprio perché è ancora ancorato a modelli industriali del secolo scorso.
Oboe è quindi più di una startup carina con un’interfaccia brillante. È un esperimento sociale, un test sul nostro rapporto con l’AI e con la conoscenza. Siamo pronti a usare un algoritmo come alleato della mente o finiremo per trattarlo come un altro passatempo da scroll compulsivo? La risposta arriverà non dai pitch deck degli investitori ma dal comportamento quotidiano degli utenti. Per ora, la sola cosa certa è che l’AI non smetterà di farci domande scomode. E Oboe, con il suo stile ironico e provocatorio, ha scelto di trasformare quelle domande in un modello di business.