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Mikhail Burtsev è il tipo di nome che suona bene in un convegno internazionale di ricerca AI. Porta con sé il fascino del ricercatore che promette di spingersi oltre le banali reti neurali che macinano dati, verso un’intelligenza artificiale che non si limita a rispondere ma che pensa davvero.
O almeno così dice. Perché il confine tra visione scientifica e marketing personale, in questo campo, è sottile come la carta su cui vengono stampati i grant di ricerca.Burtsev oggi è Arnold & Landau AI Fellow presso il London Institute for Mathematical Sciences.
Ha studiato microelettronica al Moscow Power Engineering Institute, conseguito un dottorato in informatica al Keldysh Institute of Applied Mathematics e diretto l’Artificial Intelligence Research Institute a Mosca. Curriculum impeccabile, percorso lineare, la tipica traiettoria da scienziato europeo dell’est che trova la sua consacrazione nei palcoscenici anglosassoni. Non gli manca nulla per essere percepito come “l’uomo giusto” nel momento in cui la parola intelligenza artificiale è diventata la nuova religione del capitale accademico e industriale.
La sua ricerca si concentra su concetti che sembrano presi da una sceneggiatura di fantascienza: continual learning, memory-augmented neural networks, AI-assisted maths. In pratica, modelli di apprendimento che non dimenticano e che si adattano nel tempo, capaci di gestire memoria e ragionamento invece di limitarsi a regurgitare correlazioni statistiche.
Una prospettiva affascinante che promette di portare l’intelligenza artificiale più vicina all’umano, ma che ha anche l’odore tipico del miraggio accademico. Perché nessuno al momento ha dimostrato di saperlo fare davvero.
Quando Burtsev sale sul palco, le sue frasi sono calibrate per colpire. Alla Royal Institution ha parlato di decifrare la vita con l’intelligenza artificiale, spiegando che i modelli AI possono imparare la logica nascosta del DNA e arrivare a progettare genomi interi. Una narrativa potente, che accarezza l’ego collettivo di chi sogna di riscrivere la biologia con algoritmi.
Ma che lascia una domanda sospesa: stiamo parlando di scienza, o di fantascienza finanziata da fondi di ricerca? Il lato cinico è che gran parte della retorica sulla “vera intelligenza” serve a creare attenzione, attrarre fondi e costruire reputazione.
In un sistema che premia più la promessa del risultato che il risultato stesso, il ricercatore visionario diventa figura necessaria, quasi inevitabile. È il paradosso dell’intelligenza artificiale accademica: si cercano risposte definitive ma si vive di ipotesi scintillanti.
Burtsev non fa eccezione, anzi ha perfezionato l’arte di muoversi tra la matematica e la narrazione per guadagnarsi uno spazio nel mercato globale delle idee.
La contraddizione è evidente. Da una parte l’ideale di un’intelligenza artificiale capace di apprendere in modo continuo e autonomo, dall’altra l’uso quotidiano di modelli che funzionano solo come utili strumenti di predizione e automazione.
Le aziende non hanno bisogno che una AI “capisca la vita”, basta che venda più prodotti o traduca testi meglio di un freelance sottopagato. Qui emerge la distanza tra la ricerca AI accademica e il pragmatismo industriale, un divario che nessuna conferenza brillante può colmare facilmente.
Eppure c’è un merito che non si può negare a Mikhail Burtsev: ha la capacità di porre le domande giuste. Non importa se le risposte restano sospese nel limbo del “non ancora realizzato”, l’atto stesso di spingere il dibattito oltre i confini delle applicazioni immediate genera fermento.
È un ruolo che pochi possono giocare e che spesso è indispensabile per stimolare progressi veri. Anche se, per dirla brutalmente, non è detto che a raccogliere i frutti sarà proprio lui.
La verità scomoda è che la scienza dell’intelligenza artificiale ha sempre avuto bisogno di figure così, sospese tra la concretezza matematica e la promessa messianica. La storia la scrivono i Geoffrey Hinton o gli Yann LeCun, ma l’ecosistema si regge su decine di ricercatori che alimentano l’immaginario collettivo di un’intelligenza artificiale che un giorno sarà più che un algoritmo. Burtsev incarna alla perfezione questa funzione.
È il visionario pragmatico che parla di modelli immortali mentre il mondo reale preferisce chatbot che generano fatture e risposte più veloci.
Forse la provocazione più grande che ci lascia è questa: la sua ossessione per l’intelligenza artificiale che ricorda e impara senza fine non è tanto una ricerca scientifica quanto una metafora. Non sono i suoi modelli a dover imparare continuamente, siamo noi.
Perché il giorno in cui davvero un sistema costruito in laboratorio mostrerà un pensiero autonomo, tutto il nostro gioco di potere, ricerca e mercato sarà irrimediabilmente ridimensionato. E forse non sarà un accademico a guidare quella rivoluzione, ma una startup silenziosa con meno retorica e più codice.
Rivista.AI è grata a N. Grandis per le sue scintille intellettuali.