La settimana è cominciata con un teatrino degno del miglior surrealismo politico. All’apertura dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, un manipolo di Nobel, ex capi di Stato e sviluppatori di intelligenza artificiale di frontiera ha invocato “linee rosse globali” per contenere i rischi esistenziali dell’AI. Nobile intento, certo, eppure il tono ricordava più un manuale di self-help che un’agenda concreta di politica internazionale.

L’idea di un accordo verificabile e universale suona bene nelle dichiarazioni stampa, meno quando si deve trasformarla in qualcosa che superi la fase PowerPoint. Ma non lasciamoci rovinare subito il gusto dell’ironia, perché il vero spettacolo stava per arrivare.

È bastato attendere l’intervento di Donald Trump per assistere all’ennesima reinvenzione del concetto di governance. L’ex presidente ha dichiarato che la sua amministrazione avrebbe guidato un’iniziativa internazionale per applicare la Convenzione sulle armi biologiche tramite un sistema di verifica basato sull’intelligenza artificiale.

Tutti potranno fidarsi, ha assicurato, perché l’AI sarà neutrale, imparziale e, ovviamente, “pionieristica”. Ci mancava solo la promessa di inserire ChatGPT tra i caschi blu dell’ONU. La sensazione era quella di un reality show piuttosto che di un’assemblea multilaterale.

Il giorno dopo, il sipario si è spostato al Consiglio di Sicurezza, dove Michael Kratsios, ex chief technology officer degli Stati Uniti, ha recitato il copione opposto. Nessuna intenzione di accettare un controllo centralizzato o una regolamentazione globale dell’AI. L’argomento è sempre lo stesso: la burocrazia internazionale soffoca l’innovazione, centralizza il potere e spiana la strada a nuovi tiranni digitali.

È la solita retorica da Silicon Valley travestita da geopolitica. Curioso notare come il termine “tirannia” venga invocato per descrivere un processo multilaterale, mentre l’alternativa, cioè lasciare alle big tech private il potere assoluto di definire le regole, venga venduta come la più pura forma di libertà.

L’amministrazione ha poi rincarato la dose con un crescendo degno di un manuale di propaganda. Jacob Helberg ha coniato lo slogan “AI Catastrophism is the new Climate Catastrophism”, un perfetto tweet da scolpire nel marmo delle banalità digitali. Secondo lui, chi parla di rischi esistenziali usa la paura per invocare regolazioni sempre più invasive.

Un déjà vu del dibattito sul cambiamento climatico, con la differenza che qui non si discute di gradi Celsius, ma di macchine capaci di auto-migliorarsi più velocemente di qualsiasi governo. Sriram Krishnan, in un lampo di originalità, ha liquidato il tutto con la formula “One world government + centralized control of AI = tyranny”. L’uguaglianza sembra più un meme da Reddit che una tesi politica, ma tant’è.

La questione è che il tempo stringe e i sistemi di intelligenza artificiale avanzata non conoscono confini. È ingenuo pensare che un algoritmo di nuova generazione resterà confinato entro le frontiere americane o cinesi come se fosse un prodotto agricolo.

I rischi, dai deepfake militari alle manipolazioni finanziarie automatizzate, attraversano oceani e continenti con la stessa naturalezza con cui scorriamo un feed social. Anton Leicht lo ha sintetizzato con una brutalità che gli americani fingono di non sentire: il modello attuale ha una data di scadenza, funziona finché l’AI rimane “potente ma non troppo”.

Ma quando la curva diventerà esponenziale, gli Stati Uniti scopriranno che aver rifiutato un sistema di governance internazionale li ha lasciati disarmati e fuori dal tavolo delle decisioni. In altre parole, non basterà gridare “America First” per contenere un’intelligenza che non riconosce passaporti.

Mentre Washington affila le armi retoriche, il resto del mondo recita la parte dei prudenti. La Cina, con Ma Zhaoxu, ha ricordato che mantenere l’AI sotto controllo umano è essenziale. Una dichiarazione che suona ironica se pensiamo al livello di sorveglianza digitale che Pechino già esercita sui suoi cittadini, ma tant’è. Il Regno Unito, per bocca di David Lammy, ha evocato lo spettro della superintelligenza all’orizzonte, con toni da romanzo distopico.

E la Russia, sì, proprio la Russia di Polyanskiy, ha mostrato un inaspettato senso della realtà sottolineando che lanciare una tecnologia non compresa fino in fondo, senza misure di sicurezza, equivale a un’inedita corsa agli armamenti. Che il monito più sensato arrivi da Mosca è la perfetta sintesi della confusione globale sul tema.

Tutto questo accade mentre nuovi organismi internazionali come il cosiddetto “global dialogue” sulla governance dell’AI e il Panel Scientifico Internazionale cercano di farsi largo, con l’entusiasmo di un club di filosofi in un bar sport. Non hanno denti, né strumenti coercitivi, ma servono a gettare le basi per future intese.

Ricorda pericolosamente i primi summit sul cambiamento climatico: tante dichiarazioni solenni, pochi risultati concreti, e intanto le emissioni salivano. Qui però la posta è diversa: non parliamo di decenni, ma di cicli di sviluppo che misurano i progressi in mesi.

La governance globale dell’intelligenza artificiale resta quindi un ossimoro perfetto. Da un lato, c’è la narrativa entusiastica di leader e scienziati che invocano linee rosse universali, come se il mondo fosse in grado di rispettarle. Dall’altro, la realtà politica fatta di nazionalismi, di interessi industriali colossali e di una competizione geopolitica che rende ogni accordo più fragile del vetro.

La regolamentazione AI internazionale è l’unica strada sensata, eppure viene demonizzata con slogan che confondono libertà con anarchia tecnologica. Le nazioni più consapevoli cercano di guadagnare tempo, gettando semi per un futuro più coordinato. Ma senza un impegno americano, ogni iniziativa rischia di trasformarsi nell’ennesimo dibattito senza conseguenze.

Trump aveva ragione su un punto, forse l’unico. Le Nazioni Unite hanno un potenziale enorme, ma non si avvicinano nemmeno a sfruttarlo. Potrebbero almeno provare a non trasformare il tema più urgente del nostro secolo in una farsa geopolitica, dove i leader mondiali litigano sulla scenografia mentre i sistemi di intelligenza artificiale avanzata continuano a evolversi, indifferenti al teatro delle diplomazie.

In fondo, come ricordava un vecchio diplomatico, la storia delle organizzazioni internazionali è una lunga trattativa tra chi vuole scrivere le regole e chi preferisce ignorarle finché conviene. Con l’AI, l’illusione di poter aspettare rischia di essere la più pericolosa di tutte.