Un caffè al Bar dei Daini

Parlare di Gen Z in azienda oggi non è più un esercizio accademico o una moda da LinkedIn. È un atto di sopravvivenza strategica. I dati emergono con una chiarezza imbarazzante: solo il 2% degli studenti di Gen Z condivide i valori che le aziende dichiarano di voler premiare. Se i datori di lavoro celebrano risultati, formazione continua e ambizione, i giovani professionisti pongono al centro self-care, aiuto agli altri e autenticità¹. Un mismatch che definirei culturale, psicologico e strategico.

Le aziende tendono a sottovalutare quanto questo scarto possa influenzare retention, performance e innovazione. Deloitte, nella sua Global Survey 2024, conferma che Gen Z è concentrata su “denaro, significato e benessere”², un trittico che sfida i KPI tradizionali e le politiche di valutazione convenzionali. Metti insieme questo approccio con la ricerca di Stanford che descrive la generazione come portatrice di “valori, comportamenti e aspettative differenti rispetto alle generazioni precedenti”³, e hai un quadro chiaro: il futuro ufficio sarà teatro di negoziazioni culturali continue.

Chi immagina Gen Z come semplice forza lavoro da plasmare resterà deluso. Il World Economic Forum sottolinea come questa generazione valorizzi comunità, mentalità globale e autenticità sopra la forma e il polish professionale⁴. La traduzione pratica? Le metriche di produttività tradizionali rischiano di apparire obsolete, o peggio, punitive. TalentLMS rileva che appena il 61% dei giovani lavoratori ritiene che il proprio ruolo soddisfi le aspettative⁵. Un dato che grida al management: stiamo perdendo terreno perché continuiamo a misurare il successo con parametri che non motivano più.

La sfida per i leader è più sofisticata di quanto appaia. Non si tratta di cedere a richieste di work-life balance o flessibilità, ma di ripensare l’ecosistema del lavoro. Cultura aziendale, incentivi e definizione di carriera devono dialogare con valori reali, non con aspirazioni scritte sul sito corporate. La generazione che cresce con algoritmi, social network e crisi climatiche globali non percepisce il mondo attraverso la lente dei bonus annuali e delle slide di strategia trimestrale.

Osservare questi trend senza reagire equivale a ignorare un warning rosso lampeggiante. Aziende che sapranno integrare self-care, purpose e autenticità nei propri processi interni otterranno un vantaggio competitivo significativo. Non è questione di gentilezza, ma di strategia pura. L’innovazione culturale diventa leva di retention, attrazione dei talenti e persino vantaggio sui competitor che restano ancorati a modelli obsoleti. Curiosamente, ironicamente, il paradosso emerge: più un’azienda cerca di insegnare valori tradizionali, più rischia di alienare chi dovrebbe costruire il futuro stesso.

Non si tratta di moda o di hashtag di tendenza. Gen Z non compra più storytelling corporativo vuoto, predilige esperienze coerenti, coerenza tra parole e azioni. La sfida per i CEO è sistemica: allineare missione, valori e metriche in un nuovo contratto sociale con i dipendenti. Chi riuscirà a farlo non solo conserverà talenti, ma trasformerà la propria organizzazione in un ecosistema resiliente e innovativo. Le aziende che non si adattano si ritroveranno a guardare, invidiose, startup e competitor più agili dominare mercati e talenti.

La misalignment non è un dettaglio marginale, è il nuovo campo di battaglia competitivo. Ignorarlo significa inseguire una chimera mentre la prossima generazione plasma i luoghi di lavoro secondo codici propri. Leadership, strategia e HR devono diventare un unico organismo capace di leggere dati, interpretare valori emergenti e tradurli in azioni concrete. Solo così Gen Z smette di essere “un problema da gestire” e diventa motore di innovazione, cultura e performance.

Fonti:

https://www.yahoo.com/news/articles/suzy-welch-uncovered-reason-gen-170253576.html?utm_source=chatgpt.com

https://fortune.com/2025/09/25/suzy-welch-gen-z-unhireable-values-millennial-bosses/?utm_source=chatgpt.com