The Next Wave
of AI Value Comes From Agentic AI

La verità è che le aziende non sanno bene cosa farsene di questa nuova buzzword chiamata Agentic AI, ma fingono il contrario. I dati ci dicono che il valore generato dagli agenti intelligenti raddoppierà entro il 2028 e che già oggi il 46% delle aziende spende più del 15% del budget AI su questi giocattoli digitali. Eppure, nessuno ha ancora avuto il coraggio di ammettere che metà delle implementazioni sono solo prove tecniche di trasmissione, un modo elegante per dire che stiamo buttando soldi in esperimenti. Non è ironico che nel 2025 le stesse aziende che due anni fa dubitavano di ChatGPT ora firmino assegni per agenti che simulano empatia con i clienti?

Si racconta che l’Agentic AI sia la prossima frontiera dell’intelligenza artificiale autonoma, capace di operare non solo come pappagallo predittivo o generatore di testi, ma come vero attore decisionale dentro i processi aziendali. È il sogno umido di ogni consulente: macchine che non solo rispondono, ma agiscono, schedulano, risolvono e soprattutto creano quell’illusione di efficienza che serve a giustificare fatture milionarie.

Quando il report BCG afferma che le funzioni più toccate saranno il customer service, il marketing e l’innovazione, non sta facendo una previsione, ma descrivendo l’ovvio: se devo rischiare, meglio testare l’agente sulle chiamate dei clienti piuttosto che sulla gestione finanziaria.

In questa corsa, i manager si sentono moderni pionieri, ma la realtà è meno eroica. Stiamo semplicemente automatizzando funzioni di front office che nessuno voleva più fare. L’AI agentica è l’outsourcing definitivo, la reincarnazione digitale dei call center delocalizzati. Con la differenza che il chatbot non chiede ferie e non fa sindacato.

L’ironia amara è che mentre si parla di customer journey più fluido, i consumatori finiranno a discutere con un algoritmo programmato per sembrare umano, un attore che conosce tutte le battute ma ignora il contesto reale. La domanda è se i clienti se ne accorgeranno o se, abituati già a vivere in un’economia di simulacri, continueranno a interagire con sorrisi digitali senza fiatare.

Ogni volta che si menziona l’adozione AI aziendale, qualcuno finge che sia una questione di cultura organizzativa e leadership visionaria. Non è così. È questione di budget, e il report lo dice senza girarci intorno. Quando oltre il 30% delle aziende dichiara di investire seriamente più del 15% delle spese AI sugli agenti, significa che non stiamo parlando più di prototipi da garage, ma di una scommessa industriale. E quando il 16% afferma di aver già visto valore tangibile, la traduzione è semplice: una minoranza ha trovato un uso concreto, gli altri ci credono sulla fiducia.

Il punto interessante, quasi comico, è il lessico con cui si cerca di raccontare questo cambiamento. Si parla di predictive, generative e agentic, come se fossero tre tappe di un’epopea tecnologica. In realtà sono solo tre etichette di marketing che raccontano lo stesso fenomeno da angolature diverse. Prima predicevamo i dati, poi abbiamo imparato a generare contenuti, adesso fingiamo di avere agenti autonomi.

Ma se guardi sotto il cofano, quello che trovi sono sempre modelli matematici che macinano probabilità, travestiti da assistenti digitali. La genialità è che il mondo aziendale adora le parole nuove, specialmente se suonano come un nuovo paradigma.

L’Agentic AI diventa quindi l’ennesimo feticcio tecnologico che nessuno osa mettere in discussione. È la stessa dinamica che ha fatto prosperare il cloud, la blockchain e l’IoT. All’inizio scetticismo, poi la paura di restare indietro, infine l’adozione massiccia spesso scollegata dal reale ritorno economico. In questo schema, chi vince non è mai l’azienda utilizzatrice, ma i fornitori di consulenza, software e infrastruttura. Perché se il valore raddoppierà entro il 2028, significa soprattutto che qualcuno starà vendendo molto bene l’idea del valore.

La parte più ironica arriva quando si parla di customer experience. È la funzione numero uno per applicazioni di intelligenza artificiale autonoma, ma anche quella più soggetta a fallimenti spettacolari. Tutti ricordiamo i chatbot aziendali che si bloccano davanti a una richiesta leggermente fuori script. Ora immaginiamoli con superpoteri agentici: un bot che invece di ammettere di non capire, prende iniziative creative. Un futuro in cui potresti contattare l’assistenza per un rimborso e trovarti il giorno dopo con un abbonamento aggiuntivo che non volevi. È l’innovazione come farsa, il digitale che gioca a fare l’umano e spesso esagera.

Non sorprende che le aziende sperimentino prima sul marketing digitale. Lì i danni reputazionali sono più facili da camuffare con qualche slogan brillante e una campagna riparatoria. Inoltre, il marketing è il terreno perfetto per mascherare gli errori come creatività. Se l’AI autonoma sbaglia target, basta dire che era una strategia di engagement sperimentale. Nessuno si scandalizza davvero.

E quando il report elenca innovazione e R&D come campi di applicazione, si apre la farsa definitiva: stiamo affidando la ricerca alle macchine, ma con la convinzione che resteremo noi a guidare la direzione. Come se dare autonomia a un algoritmo fosse una concessione reversibile.

Il futuro dell’Agentic AI non sarà lineare, e forse nemmeno razionale. Sarà un patchwork di successi episodici e fallimenti fragorosi, in cui la retorica della trasformazione digitale servirà a nascondere i cicli di hype. Chi racconta che tutto questo sia inevitabile dimentica che il mercato decide sempre più per moda che per utilità. Ma poco importa: l’adozione AI aziendale ha bisogno di narrazioni potenti, e nulla è più potente di un concetto che promette autonomia. Non libertà, attenzione, ma autonomia controllata, quella che tranquillizza i board e seduce gli investitori.

Chi guarda questi numeri con occhio cinico vede un’altra storia. Non è l’AI che diventa autonoma, ma le aziende che perdono controllo. Perché quando deleghi processi critici a macchine che operano senza chiedere permesso, non hai più governance, hai solo la speranza che la simulazione funzioni. È un gioco d’azzardo con la tecnologia, mascherato da innovazione inevitabile. Il raddoppio del valore entro il 2028 non è una previsione, è una scommessa collettiva. E come ogni scommessa, qualcuno vincerà alla grande, molti perderanno, tutti fingeranno di averlo previsto.