Meta, con il suo nuovo Business AI, ha appena mandato un messaggio chiaro e un po’ inquietante al mercato globale: non basta più vendere pubblicità, ora si vuole orchestrare l’intera esperienza del cliente dall’inizio alla fine. Clara Shih ha usato parole da evangelista più che da manager quando ha dichiarato che Meta va “oltre gli ads e oltre Meta stessa” per diventare il cervello nascosto dietro l’economia delle relazioni digitali.
Non si parla più soltanto di suggerire il prossimo paio di scarpe su Instagram, ma di colonizzare anche il sito web della tua azienda su Shopify, rendendo l’intelligenza artificiale di Zuckerberg il commesso universale. In altre parole, la grande piattaforma social sta cercando di diventare un ERP emozionale, un layer che gestisce emozioni e transazioni, sostituendo i CRM tradizionali con un algoritmo che conosce i desideri dei clienti meglio di quanto non li conoscano i clienti stessi.
Ironico che, dopo aver creato un impero sulla pubblicità, ora Meta voglia presentarsi come il consulente di fiducia che ti libera dai costi pubblicitari. È un ribaltamento strategico che puzza tanto di disintermediazione radicale, con l’AI che non fa più solo matching tra utenti e inserzionisti, ma si infiltra direttamente nel flusso di cassa delle aziende.
All’altro capo del Pacifico, mentre le big tech si inventano nuovi modi per monetizzare i dati, Taiwan ricorda al mondo che senza semiconduttori il futuro dell’AI rimane un esercizio retorico. Cheng Li-chiun ha rifiutato con una freddezza glaciale l’ultima proposta americana di spostare metà della produzione chip destinata al mercato USA direttamente sul suolo statunitense. Secondo lui non solo la proposta non è stata discussa, ma addirittura viola la logica di cooperazione tra Taipei e Washington.
Tradotto: non provate a portarci via il vantaggio competitivo, non svendiamo il nostro petrolio del XXI secolo. Perché in questa guerra commerciale travestita da cooperazione, la vera posta in gioco è chi controlla la filiera più critica del pianeta. Gli Stati Uniti impongono un “reciprocal tariff” del 20% sulle merci taiwanesi e intanto fanno moral suasion per riportare la produzione a casa. Taiwan, che ospita la TSMC, il più potente fornitore di chip per l’economia americana, non sembra affatto pronta a cedere. Un gioco pericoloso, perché se TSMC decide di rallentare o riorientare le forniture, la Silicon Valley intera si ritrova con le fabbriche di AI ma senza il carburante per farle funzionare.
Poi c’è Perplexity, la startup che si comporta come se fosse già una superpotenza. Dopo aver fatto parlare il mondo con la sua piattaforma Q&A, ora rende disponibile gratis il browser Comet, un software che mescola navigazione web e intelligenza artificiale come se fosse il naturale successore di Chrome. Non è solo un browser, è un assistente cognitivo integrato, che promette di spazzare via la distinzione tra ricerca e navigazione.
Ma l’aspetto più curioso è la sua strategia di pricing: prima a pagamento per i clienti Max, 200 dollari al mese, oggi gratis per tutti. Una mossa che assomiglia più a una provocazione che a un business model tradizionale. Ed è proprio qui che Perplexity sembra divertirsi: la scorsa estate ha addirittura presentato un’offerta da 34,5 miliardi di dollari per comprare Chrome da Google. Un gesto che molti hanno interpretato come boutade, ma che ha il pregio di evidenziare la fragilità di un impero come quello di Mountain View, costruito su un browser che oggi rischia di diventare rapidamente obsoleto di fronte a un futuro di intelligenze artificiali native.
Gli investitori non sono certo degli sprovveduti: tra i nomi compaiono Jeff Bezos, Nvidia e Databricks. Un triumvirato che da solo rappresenta infrastruttura, capitale e accelerazione tecnologica. Chi pensa che Perplexity sia solo una moda passeggera probabilmente sottovaluta quanto un browser AI-first possa riscrivere i meccanismi stessi della pubblicità digitale e della raccolta dati. Con Chrome che regge ancora il 60% del mercato, l’idea che un attore nuovo possa inserire un layer cognitivo direttamente nella navigazione quotidiana mette in crisi modelli di business consolidati da vent’anni.
Questi tre episodi non sono scollegati, anzi fanno parte di un unico copione. Meta prova a conquistare il front-end delle interazioni aziendali, Taiwan difende con i denti il back-end della manifattura tecnologica, Perplexity sfida lo strato intermedio, quello che connette l’utente alla rete. È un gioco a tre livelli che definisce chi controllerà la prossima generazione dell’economia digitale. Non è un caso che mentre Zuckerberg veste i panni del consigliere aziendale, Taipei funga da guardiano del silicio e un gruppo di venture capitalist decida che è il momento giusto per finanziare un browser. Il paradosso è che tutte queste mosse convergono sulla stessa ossessione: il controllo dell’intelligenza artificiale non passa soltanto per gli algoritmi, ma per le infrastrutture invisibili che li rendono inevitabili.
C’è un dettaglio che merita attenzione: la narrativa pubblica sembra parlare solo di innovazione e progresso, mentre sotto la superficie si sta giocando una partita di monopolizzazione brutale. La domanda da farsi non è se Business AI sarà utile alle imprese o se Comet renderà più piacevole la navigazione, ma chi avrà il controllo dei dati, dei chip e delle interfacce tra qualche anno. La risposta non piacerà a tutti, perché non sarà distribuita democraticamente. I nuovi imperi digitali si stanno costruendo con alleanze ibride tra governi, capitali privati e infrastrutture tecnologiche. Chi resta fuori da questo triangolo non avrà più voce in capitolo.
La sensazione è che stiamo assistendo a una nuova Yalta tecnologica, dove le sfere di influenza non si dividono più per territori, ma per stack tecnologici. E come sempre, tra i sorrisi e le dichiarazioni di collaborazione, la vera moneta di scambio è la dipendenza strutturale. Forse è per questo che ogni volta che sento parlare di “partnership strategiche” nel digitale, penso più a un matrimonio combinato che a una storia d’amore. E come in tutti i matrimoni combinati, la parte più debole paga il prezzo più alto.