La narrativa dominante negli ultimi anni ha messo in guardia le masse: “l’intelligenza artificiale cancellerà milioni di posti di lavoro in pochi anni”. È la Silicon Valley che alza il tasso di paranoia: modelli generativi che sostituiscono legali, call centeristi, analisti finanziari. Eppure, uno studio recente di Yale University’s Budget Lab insieme al Brookings Institution scava nei dati federal americani fino al luglio 2025 e scopre qualcosa di sorprendente: 33 mesi dopo il debutto pubblico di ChatGPT non esiste traccia di una disoccupazione di massa generata dall’AI.
Gli autori analizzano la “composizione occupazionale” ovvero la distribuzione dei lavoratori tra i vari mestieri e la sua evoluzione da novembre 2022. Se l’AI stesse spazzando via posti di lavoro, tale composizione dovrebbe cambiare in modo rapido e marcato. Invece, i ricercatori trovano uno scarto marginale rispetto ai trend storici: i cambiamenti sono circa un punto percentuale più rapidi rispetto all’era dell’internet iniziale, ma rientrano in un intervallo compatibile con transizioni tecnologiche normali.
Prendiamo i lavori più esposti all’AI legale, finanza, customer service che, secondo OpenAI stessa, presenterebbero un rischio elevato. Il dato emergente è che il numero di lavoratori in queste categorie non è diminuito. In media, circa il 18 % degli impiegati occupa funzioni ad alta esposizione all’IA, e questa percentuale è rimasta stabile da gennaio 2023 fino all’ultimo dato preso in esame.
L’information sector (editoria, elaborazione dati, media) ha mostrato i cambiamenti più visibili nella composizione occupazionale. Ma l’analisi cronologica rivela che queste variazioni erano già in corso prima della diffusione di ChatGPT dunque attribuirle all’AI è un azzardo. Anche finanza e servizi professionali seguono traiettorie simili, con inversioni che si erano avviate prima del 2022.
Un’ulteriore lente interessante è quella dei neolaureati (20–24 anni). Il tasso di disoccupazione con laurea per questa fascia è salito fino al 9,3 % in agosto 2025 (da 4,4 % ad aprile). Ma Yale/Brookings rilevano che la dinamica somiglia molto a quella dei laureati 25–29 anni, suggerendo che non sia stato l’IA a penalizzare specificamente i giovani, bensì un rallentamento più largo nel mercato del lavoro. Il gap tra le composizioni occupazionali dei due gruppi oscillava da tempo tra 30 e 33 %, ben prima dell’arrivo di ChatGPT.
Non è la prima volta che la storia tecnologica insegna prudenza. L’introduzione dei computer sulle scrivanie aziendali ha richiesto quasi un decennio per imporsi come standard; la rivoluzione di internet si è dispiegata ancora più lentamente. Lo studio ricorda che, nel pieno del cambiamento industriale degli anni 1940-50, le variazioni occupazionali raggiunsero il 20-21 % rispetto al punto di partenza oggi le oscillazioni sono molto più contenute, attorno al 10 %.
Il team di ricerca non ignora le criticità: le metriche di “esposizione all’AI” (basate su modelli teorici di quanto l’IA potrebbe accelerare un compito del 50 %) sono ipotesi non misurazioni reali. Mancano dati completi sull’uso effettivo delle AI da parte delle imprese. Il rischio è che i segnali emergano in casi specifici o cluster professionali prima che si manifestino su scala macroeconomica. I ricercatori hanno già dichiarato che monitoreranno mensilmente i trend futuri.
Un lavoro parallelo pubblicato su arXiv, “The (Short-Term) Effects of Large Language Models on Unemployment and Earnings”, offre un contrappunto interessante: gli autori stimano che, per le occupazioni ad alta esposizione ai modelli linguistici, non ci sia stato un aumento della disoccupazione, ma anzi un aumento dei guadagni. Ciò suggerisce che, finora, l’adeguamento si stia realizzando più attraverso la crescita salariale che lo spostamento dei lavoratori.
Non tutti gli studi sono così ottimisti: nel mercato freelance online, altri ricercatori hanno notato riduzioni in domanda per compiti testuali e di programmazione meno complessi dopo l’arrivo di ChatGPT. Alcuni freelance avrebbero migrato verso lavori più tecnici o complessi per sopravvivere.
Qual è la morale provocatoria? L’AI non sembra (ancora) un drago divoratore di posti di lavoro: per ora è un rumore, non un terremoto. Ma la festa non durerà per sempre. Le aziende devono ripensare processi, regole, compliance, governance, affidabilità, privacy: tutto questo ritarda l’adozione “in sicurezza” su vasta scala.
Non è saggia alcuna vittoria prematura, ma oggi i dati smentiscono le versioni estreme del “bloodbath blanc” predetto da CEO e commentatori. Se vuoi, posso scavare nei settori europei o italiani per vedere se il fenomeno è già in atto qui.
Di seguito i link ai documenti originali:
- Evaluating the Impact of AI on the Labor Market: Current State of Affairs — Yale Budget Lab / Brookings The Budget Lab at Yale
- New data show no AI jobs apocalypse—for now — articolo sul blog Brookings Brookings
- The (Short-Term) Effects of Large Language Models on Unemployment and Earnings (arXiv) arXiv