Quando Jeff Bezos decide di parlare di intelligenza artificiale, i mercati ascoltano e i giornalisti impazziscono. Alla Italian Tech Week ha pronunciato la parola che nessun investitore ama sentire: bolla. Non una bolla qualsiasi, ma un’“industrial bubble” che ricorda il biotech degli anni Novanta e la febbre dot-com dei primi Duemila.
Il parallelo non è casuale, perché la traiettoria è sempre la stessa: euforia irrazionale, capitale che piove ovunque, startup improvvisate che raccolgono milioni senza un modello di business credibile, e un inevitabile bagno di sangue per chi resta con il cerino in mano.
Bezos ha il dono di saper essere spietato e ottimista nello stesso momento: “Gli investitori fanno fatica a distinguere le buone dalle cattive idee quando tutti corrono, ma alla fine vince la società intera, perché le innovazioni solide sopravvivono”. È la vecchia legge darwiniana applicata ai mercati.
La differenza, questa volta, è che l’intelligenza artificiale non è una suggestione da salotto tecnologico. Non è una moda di settore che svanirà con lo scoppio della bolla, ma una piattaforma abilitante che ridisegna intere industrie. L’entusiasmo è eccessivo, certo, ma i fondamentali sono reali. Pensiamo ai modelli linguistici, alle applicazioni in biomedicina, alla capacità di automazione spinta che inizia a sostituire non solo il lavoro manuale ma anche quello cognitivo. Il rischio è che l’overfunding generi rumore, sprechi e illusioni, ma chi sopravviverà detterà le regole del gioco per decenni.
In questo scenario di iperfinanziamento, la parola chiave non è tanto crescita quanto selezione. Ogni dollaro bruciato da una startup che fallirà servirà a fertilizzare il terreno per chi ha la tecnologia solida e la capacità di execution. Il punto che Bezos lancia sul tavolo non è tanto un avvertimento catastrofista, quanto un promemoria cinico per gli investitori: preparatevi a perdere soldi, ma non dimenticate che i vincitori riscriveranno le regole del capitalismo tecnologico.
Poi arriva il colpo di teatro, tipico di Bezos: datacenter nello spazio. Gigawatt di potenza alimentati dal sole 24 ore su 24, liberi da nuvole, piogge e blackout. Una visione che sembra fantascienza ma che diventa improvvisamente logica se osserviamo la curva dei costi e delle esigenze di calcolo per l’addestramento dei modelli di intelligenza artificiale. Non si tratta solo di ridurre i consumi energetici sulla Terra, ma di spostare la frontiera produttiva dove l’energia è gratuita e illimitata. È un’idea che ribalta la geopolitica dell’infrastruttura: mentre oggi la corsa è per localizzare i datacenter in paesi con energia a basso costo e stabilità politica, domani il fattore discriminante sarà l’orbita terrestre.
Chi pensa che sia fantascienza dovrebbe rileggere le cronache del 1995, quando parlare di comprare libri su Internet sembrava una boutade ridicola. Bezos ha già dimostrato di saper trasformare il ridicolo in mainstream. Certo, costruire e mantenere datacenter spaziali non è una questione di dieci anni, come lui stesso ammette, ma di una generazione. Tuttavia, la traiettoria è chiara: la fame energetica dell’IA porterà inevitabilmente a spostare parte della capacità di calcolo fuori dall’atmosfera terrestre.
C’è un dettaglio che molti trascurano. Se davvero si costruiranno datacenter spaziali, l’effetto a cascata sarà devastante su interi settori terrestri: utility elettriche, cloud provider, persino la politica delle emissioni di CO2. Una rivoluzione che ridisegnerà non solo la tecnologia ma l’economia globale. Non si tratta di una provocazione estetica ma di una proiezione realistica di dove l’IA ci sta portando.
La provocazione di Bezos arriva in un contesto in cui il rapporto tra tecnologia e società si fa sempre più teso. Apple, per esempio, ha appena rimosso dall’App Store un’app chiamata ICEBlock, che segnalava agli utenti la presenza di agenti dell’immigrazione americana. La mossa è arrivata dopo pressioni dirette del Dipartimento di Giustizia sotto l’amministrazione Trump, che ha sollevato preoccupazioni per la sicurezza degli agenti. Qui non siamo nel territorio delle bolle speculative ma in quello, ancora più scivoloso, della censura preventiva. Quando un gigante tecnologico decide cosa è legittimo e cosa no, non è solo un atto di conformismo politico ma un segnale del potere crescente delle piattaforme nel ridefinire il confine tra sicurezza e libertà.
Ed è in questa tensione che l’intelligenza artificiale diventa lo specchio deformante della nostra epoca. Da un lato l’euforia dei mercati e la visione di datacenter spaziali, dall’altro la realtà molto terrestre di governi che cercano di controllare l’informazione digitale. La verità è che non si può più separare l’aspetto tecnologico da quello politico, e che la bolla di cui parla Bezos non è solo economica ma anche sociale. Una bolla di aspettative, di paure, di regolamentazioni che arrancano sempre un passo indietro.
Chi si illude che l’IA sia solo un tema tecnico farebbe bene a osservare le reazioni che suscita. Non è un caso che il termine “bolla tecnologica” sia tornato di moda: è la scorciatoia narrativa per spiegare un fenomeno che in realtà non ha precedenti. L’IA non si consumerà come una moda. È troppo radicata nei processi produttivi, troppo integrata nelle strategie dei giganti globali, troppo utile per essere accantonata. La bolla non è il segnale della sua fragilità, ma della sua inevitabile egemonia.
Bezos, con il suo stile glaciale e il sorriso da predatore, lo sa benissimo. Lancia l’allarme agli investitori ma nello stesso tempo li seduce con la visione cosmica dei datacenter spaziali. Una contraddizione apparente che in realtà è pura strategia: instillare timore per rafforzare il desiderio. È la stessa logica che guida le grandi narrazioni capitalistiche, quelle che alternano catastrofe e salvezza, paura e promessa. In fondo, come disse una volta George Soros parlando delle bolle speculative, “non si tratta di sapere se finiranno male, ma di capire quanto ci si può arricchire prima che scoppiino”.
L’intelligenza artificiale è destinata a diventare una bolla gigantesca, sì. Ma è anche la bolla che nessuno può permettersi di ignorare. Chi resta fuori, semplicemente, sparirà. Bezos ci ricorda che non stiamo solo scommettendo su aziende o algoritmi, ma sul futuro stesso dell’economia globale. E se il futuro richiede datacenter nello spazio, è solo questione di tempo prima che qualcuno inizi a costruirli.