Chiunque abbia ancora il coraggio di definire il Consiglio di Sicurezza ONU il custode della pace mondiale dovrebbe forse aggiornare il proprio vocabolario politico. Ottant’anni dopo Yalta, quell’architettura istituzionale disegnata da vincitori e sconfitti della Seconda guerra mondiale è rimasta congelata come un museo della geopolitica. E un museo, si sa, serve a celebrare il passato, non a governare il presente. L’ultima Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha reso esplicito ciò che tutti già sapevano ma nessuno osava dire a voce alta: il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è irrimediabilmente obsoleto, e la sua paralisi davanti alle crisi di Gaza e Ucraina ha bruciato quel poco di credibilità residua. Non è più tempo di piccoli aggiustamenti cosmetici, qui si tratta di riformare un organo che ha perso ogni forma di legittimità percepita.

Il problema non è un dettaglio tecnico, ma un’anomalia strutturale. Cinque seggi permanenti, eredità diretta del dopoguerra, garantiscono a Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Regno Unito un potere di veto che non è solo anacronistico, è tossico. Lo abbiamo visto quando Washington ha bloccato ogni risoluzione critica verso Israele, trasformando Gaza in una ferita aperta che lacera la coscienza globale. Lo abbiamo visto quando Mosca ha paralizzato qualsiasi azione sull’Ucraina, dal 2022 in poi, come se la guerra fosse una questione di politica domestica. La retorica diplomatica può nascondere la realtà, ma non cancellarla: il veto delle Nazioni Unite non è uno strumento di equilibrio, è la pistola puntata sul tavolo da chi non vuole mediazione. Non sorprende quindi che ogni volta che il Consiglio di Sicurezza si riunisce, la sensazione sia quella di un teatro di marionette, con i fili tirati da chi possiede l’arma del blocco.

Il Sud globale non accetta più questa farsa. Africa, America Latina e Asia hanno sollevato la questione con insistenza crescente. Alexander Stubb, presidente della Finlandia, ha dichiarato che senza una rappresentanza autentica il rischio è che interi continenti voltino le spalle all’ONU. È un avvertimento che non suona come minaccia, ma come inevitabile conseguenza. Non stiamo parlando di rivendicazioni ideologiche, ma di semplice aritmetica geopolitica: il mondo multipolare esiste già, il Consiglio di Sicurezza ONU invece si ostina a fingere che siamo ancora nel 1945. Una struttura di governance che ignora India, Brasile, Sudafrica e l’intero continente africano non è incompleta, è semplicemente grottesca.

I progetti di riforma esistono, ma spesso si infrangono contro la muraglia del realismo politico. Allargare i seggi permanenti per includere potenze emergenti appare una misura di buon senso, ma chi detiene il potere attuale non è disposto a cederlo. Limitare o abolire il veto sarebbe un atto rivoluzionario, e la parola rivoluzione a New York o Mosca non trova molti sostenitori. Tuttavia, senza un ridisegno radicale, il Consiglio di Sicurezza rischia di trasformarsi in un simulacro, un’istituzione formalmente potente ma sostanzialmente irrilevante. Nessuna impresa globale sopravviverebbe con un consiglio di amministrazione paralizzato dal diritto di veto di cinque azionisti storici. Perché mai dovremmo accettare questo meccanismo per la governance mondiale?

Gli argomenti contro la riforma sono noti e riciclati: instabilità, rischio di frammentazione, difficoltà di implementazione. È un po’ come dire che non si può aggiornare un sistema operativo perché è troppo complicato riscriverne il codice. Intanto il software va in crash, i dati vanno persi e l’azienda chiude. La tecnologia ha un termine preciso per questo: obsolescenza programmata. Ecco cosa è diventato il Consiglio di Sicurezza ONU, un prodotto obsoleto che nessuno si decide a sostituire. Eppure, come nella Silicon Valley, quando un prodotto non funziona più, arriva sempre qualcuno pronto a lanciarne uno nuovo. La domanda è chi sarà il disgregatore in questo caso. Cina e India? L’Unione Africana? Un’alleanza inedita tra Sud globale e potenze medie europee stanche di essere comparse nella sceneggiatura americana?

La legittimità è un bene intangibile ma fondamentale. Senza legittimità, nessuna istituzione sopravvive a lungo. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite continua a emettere comunicati e a convocare riunioni, ma la percezione pubblica è cambiata. Non è più la sede naturale di risoluzione dei conflitti, è un’arena dove si misurano le potenze senza alcun obbligo di risultato. Quando la gente inizia a ignorare un arbitro perché lo considera di parte, il gioco perde ogni senso. Gaza e Ucraina sono solo due esempi, ma basta guardare al Sahel, allo Yemen, al Myanmar per comprendere che la paralisi non è episodica, è strutturale. E un’istituzione che si dimostra irrilevante nelle crisi, semplicemente smette di essere presa sul serio.

Il paradosso è che nessuno mette in discussione l’utilità teorica del Consiglio. La pace globale ha bisogno di un’istituzione forte e riconosciuta, un luogo dove le grandi potenze e le potenze emergenti possano sedersi e negoziare. Il mandato resta essenziale, ma la struttura è marcia. È come avere un ponte che collega due sponde cruciali ma con pilastri corrosi. Si può continuare a passarci sopra sperando che regga, oppure si decide di rinforzarlo prima che crolli. La seconda opzione sembra logica, ma la logica e la politica raramente viaggiano insieme.

Le riforme possibili sono state discusse in infinite commissioni. Si parla di seggi permanenti per Africa e America Latina, di un’India finalmente riconosciuta come potenza globale, di limitazioni al veto trasformandolo in un voto qualificato invece che assoluto. Sono ipotesi ragionevoli, ma per ora restano ipotesi. L’assenza di coraggio politico non sorprende, ma la storia insegna che quando le istituzioni non si adattano, vengono travolte. Se l’ONU non ristrutturerà il suo Consiglio di Sicurezza, qualcun altro costruirà un’alternativa parallela. Forse non domani, ma abbastanza presto da rendere l’attuale organo irrilevante. E se qualcuno crede che sia un’esagerazione, basta guardare come le istituzioni di Bretton Woods siano già state affiancate da nuove banche multilaterali guidate dalla Cina. La realtà è che il monopolio dell’ordine globale non esiste più.

Il futuro del Consiglio di Sicurezza ONU dipenderà dalla capacità di ridisegnare regole che rispecchino il XXI secolo. Non si tratta di burocrazia diplomatica, ma di sicurezza collettiva. Perdere la centralità significherebbe lasciare un vuoto che sarà riempito da attori molto meno inclini alla trasparenza e al compromesso. Un vuoto che alimenterà instabilità, guerre regionali e frammentazione geopolitica. Non è quindi un lusso accademico parlare di riforma, è una necessità concreta per evitare che l’ordine internazionale si dissolva in una costellazione di conflitti irrisolvibili.

Il Consiglio di Sicurezza non è morto, ma è in coma indotto. L’unico modo per salvarlo è staccarlo dal respiratore del veto e rianimarlo con nuova rappresentanza. Senza un atto chirurgico radicale, la diagnosi è chiara: irrilevanza cronica. E in geopolitica, come in economia, l’irrilevanza è peggio della sconfitta, perché nessuno ti nota nemmeno quando sparisci.