Quando si parla di prevenzione secondaria in cardiologia, di solito si cita il controllo dei fattori di rischio (ipertensione, colesterolo, diabete, stile di vita). Ma c’è un terreno più “tecnologico”, in cui entra in gioco l’imaging non invasivo: l’idea che un esame “fotografico” delle arterie, ad intervalli prefissati, possa intercettare lesioni in stent o progressione aterosclerotica prima che si traducano in eventi acuti. In quel contesto nasce PULSE, lo studio presentato al Congresso Europeo di Cardiologia 2025, che ha acceso un faro su quando non se usare la TAC coronarica di controllo.

PULSE (Planned Angiographic Control vs Ischaemia-driven Strategy after Unprotected Left Main PCI) ha arruolato 606 pazienti sottoposti a PCI (angioplastica con stent) del tronco comune (un’arteria di grandissima importanza per la perfusione cardiaca). I pazienti sono stati randomizzati in due bracci: uno con follow-up basato su sintomi e ischemia (gestione “standard”), l’altro con TAC coronarica (CCTA, coronary computed tomography angiography) a 6 mesi, indipendentemente dai sintomi. Successivamente, tra 6 e 18 mesi, venivano valutati eventi clinici maggiori.

L’endpoint composito primario includeva: mortalità per tutte le cause, infarto spontaneo, angina instabile, trombosi dello stent confermata. Nel braccio TAC, l’endpoint primario si verificò in 11,9 % dei pazienti, contro 12,5 % nel gruppo tradizionale (hazard ratio 0,97; p = 0,80) quindi nessuna differenza significativa sull’endpoint assemblato.

Ma non è tutto: PULSE mostrò una riduzione significativa del rischio di infarto spontaneo (0,9 % nel gruppo TAC vs 4,9 % nel gruppo controllo; HR circa 0,26, p ≈ 0,004) Tuttavia, nel gruppo con TAC si osservò un aumento delle revascolarizzazioni indotte dall’imaging (imaging-triggered target-lesion revascularization, TLR) (4,9 % vs 0,3 %) La revascolarizzazione “clinicamente guidata” (cioè indicata in base a sintomi) non differiva significativamente tra i bracci (5,3 % vs 7,2 %, HR ~ 0,74)

In parole meno “da contratto,” introdurre una TAC routinaria non sposta l’ago della bilancia sul “non morire” ma sembra ridurre alcuni infarti “silenti” che altrimenti passerebbero inosservati, almeno nel breve-medio termine.

Il prezzo? Più “interventi per via guidata dall’immagine”, che potrebbero condurre a procedure non sempre necessarie.Il dato forte che è già causa di prudenza da parte delle linee guida e delle società scientifiche è che la TAC non ha ridotto la mortalità né l’endpoint composito principale. È un messaggio che spegne il mito del “più controllo = più vita”.

Ma se il concetto “ridurre infarti” vi suona allettante (e lo è), bisogna entrare nei dettagli tecnici: perché la TAC coronarica non è priva di limiti. Le immagini in zone con stent subiscono distorsioni: “blooming effect” (strutture metalliche che appaiono sovradimensionate), “beam hardening” e artefatti da movimento (cardiaco o respiratorio) riducono la capacità di vedere con precisione il lume interno dello stent.

In passato, si stimava che circa il 10-15 % degli stent non possa essere valutato con sufficiente qualità d’immagine. Negli ultimi anni le CT più moderne con detector multi-fila avanzati, scansione più rapida, tecniche di ricostruzione migliorate, e persino tecnologie emergenti come la CT a conteggio di fotoni (photon-counting CT) hanno mitigato molti di questi problemi.

Un plus: la TAC coronarica moderna consente anche qualche valutazione “funzionale” come FFR-CT (fractional flow reserve derivata dalla CT) o perfusione con CT che la rende non solo esame anatomico, ma “anatomico funzionale”.

Va detto che lo studio PULSE non ha esclusivamente arruolato pazienti generici, ma casi complessi (tronco comune non protetto), dove il rischio di resteno­si è più elevato.

Il protocollo preesistente presentato già nel 2020 spiegava che la reintervenzione tempestiva in stenosi intra-stent è uno degli obiettivi degli approcci di controllo programmato (planned angiographic control, PAC). Inoltre, PULSE pone limiti: follow-up solo 18 mesi, endpoint composito dove l’effetto favorevole su infarto viene “diluido” con altri eventi che non hanno risposto al controllo aggressivo, e la soglia per intervenire su lesioni individuate alla TAC non è universalmente codificata (ossia, decisioni individuali dei centri).

Cosa significa questo per la prevenzione delle recidive o peggiori eventi? Che non basta “fare una TAC in più” per garantire protezione universale. Va costruito un criterio di selezione: quali pazienti beneficiano, con quale soglia di aterosclerosi residua, con quale anatomia (plurivascolarizzazione? biforcazioni? stent lunghi?), con che rischio intrinseco (insufficienza renale, carico calcico alto, scarsa compliance con la terapia medica).

Dal punto di vista pratico, se fossi un cardiologo (o dovessi discutere con il paziente): la TAC coronarica di controllo non sostituisce la visita, il controllo clinico, il monitoraggio dei biomarcatori e degli stress test quando indicati ma potrebbe essere uno strumento aggiuntivo nei pazienti ad alto rischio residuo, con anatomie complesse o in cui la probabilità di lesioni silenti è elevata.Infine, c’è un dato “storico” che vale la pena ricordare: in uno studio osservazionale su oltre 2 mila pazienti con TAC coronarica e follow-up decennale, chi aveva arterie normalissime alla TAC aveva tasso annuo di eventi (morte cardiaca + infarto non fatale) di circa 0,04 % un dato che dimostra la potenza prognostica dell’imaging coronarico anche su popolazioni generali.