Bernie Sanders, ormai più oracolo apocalittico che senatore del Vermont, ha lanciato l’ennesimo grido d’allarme — questa volta nel tempio libertario di Joe Rogan. E il tema non poteva essere più incendiario: l’intelligenza artificiale come bulldozer sociale pronto a schiacciare milioni di lavoratori, mentre un’élite tech sorride dai suoi jet privati. La scena sembra uscita da una distopia cyberpunk, ma in realtà è solo un altro lunedì qualunque nel 2025.

La keyword è chiara: disoccupazione tecnologica. E le correlate danzano attorno come satelliti radioattivi: automazione, robotica industriale, AI policy democratica. Sanders non è solo preoccupato che i robot prendano il nostro posto; è furioso che nessuno sembri avere un piano che non preveda semplicemente… farci accomodare all’uscita.

Nel cuore dell’intervista con Rogan, Sanders ha lanciato la proposta che suona come musica per chi è stanco del “lavora di più per guadagnare meno”: settimana lavorativa di 32 ore. Quattro giorni. Stipendio pieno. A molti sembrerà utopia scandinava, ma in un contesto dove AGI (Artificial General Intelligence) promette efficienze miracolose, ridurre l’orario senza licenziare dovrebbe essere il minimo sindacale. Eppure, come sempre, la realtà è più cinica degli algoritmi di DeepMind.

Sanders non si limita a predicare redistribuzione e dignità. Spinge per una rivoluzione democratica nel controllo della tecnologia. Niente più tavoli ristretti a Davos, niente più black-box decision-making tra venture capitalist e tecnologi usciti da Stanford. Se una manciata di CEO può decidere quali lavori spariranno domani, allora — suggerisce Sanders — è tempo che anche il popolo abbia il proprio bottone rosso.

La verità è che Sanders non sta facendo una guerra contro la tecnologia, ma contro il modo in cui viene sviluppata: top-down, proprietaria, in gran parte indifferente alle ricadute umane. E qui la sua ironia si fa più tagliente del solito, quando prende in giro l’idea che, una volta disoccupati e abbandonati, potremmo trovare consolazione in un’intelligenza artificiale affettuosa. “Tutto ciò che dirò è: la risposta non è innamorarsi del tuo robot”, ha detto, in quella che potrebbe essere la frase più umana mai detta in un dibattito sull’AI.

È un messaggio provocatorio, ma non fuori dal mondo. Anzi, è probabilmente il più lucido. Perché dietro le promesse su ChatGPT, Gemini o Claude si cela un’implicita scommessa: che le società sopravvivranno a un cambiamento strutturale senza precedenti senza fare nulla per prepararsi. Come se l’unica funzione dell’umanità fosse consumare, e mai governare. E qui l’equazione si fa chiara: più AI equivale a meno lavoro umano — almeno per come lo abbiamo conosciuto finora.

I dati lo confermano. Secondo il World Economic Forum, tra il 2025 e il 2030 l’automazione sostituirà fino a 85 milioni di posti di lavoro, anche se ne creerà 97 milioni nuovi. Il problema? I nuovi richiedono competenze avanzate, spesso inaccessibili a chi viene tagliato fuori. E allora il rischio non è solo economico, ma esistenziale: milioni di persone potrebbero trovarsi disoccupate, disconnesse, e disperatamente alla ricerca di un senso. Un senso che, secondo alcuni esperti, verrà delegato all’intelligenza artificiale emotiva, alle AI in stile “Her” con cui parlare, confidarsi, magari anche amare. A quanto pare, l’industria ha già previsto il nostro collasso emotivo. E sta monetizzando anche quello.

Sanders guarda questo scenario con la stessa diffidenza con cui guarderebbe un hedge fund: “Se questo è il futuro, allora meglio cambiarlo prima che ci arrivi addosso.” E così riesuma proposte che nei circoli di Wall Street fanno venire l’orticaria: reddito universale, sanità garantita, diritto all’educazione. Ma è la sua idea di democrazia tecnologica ad avere il sapore più radicale: togliere il potere agli ingegneri delle multinazionali per restituirlo, se non al popolo, almeno a un consesso meno chiuso, meno californiano, meno distaccato dalla carne e dal sangue del lavoro umano.

In questo quadro, Elon Musk diventa una figura quasi mitologica. Un demiurgo dell’efficienza che licenzia dipendenti pubblici come fossero bug da rimuovere. Se Sanders vede Musk come l’avatar di un futuro anti-umano, non è per mancanza di rispetto per la tecnologia. È per la mancanza di empatia con cui viene applicata. In un mondo che elogia la disruption, Sanders difende la coesione. In un mondo che venera l’efficienza, lui invoca la giustizia. Può sembrare retrò, ma forse è semplicemente umano.

Perché qui non si tratta solo di automazione, ma di governance algoritmica. Chi decide cosa fa l’intelligenza artificiale? A quale scopo? Per conto di chi? E soprattutto: chi paga il conto sociale delle “innovazioni” che rendono obsoleto l’essere umano medio? Le big tech continuano a dichiarare che stanno “liberando il potenziale dell’umanità”. Ma chi raccoglie i cocci quando quella libertà si traduce in disoccupazione, alienazione e solitudine?

Sanders non ha tutte le risposte. Ma almeno ha il coraggio di porre le domande giuste, là dove regna l’autocompiacimento californiano. Mentre Sam Altman e i suoi simili immaginano mondi simulati dove tutto è risolvibile con il codice, c’è ancora chi insiste che senza una società giusta, nessun algoritmo potrà salvarci da noi stessi.

Ed è in quella stonatura, in quel fastidioso ronzio che interrompe il canto armonico dell’AI, che la voce di Bernie risuona come un allarme antincendio. Fastidiosa, forse. Ma necessaria.