Tim Cook, il gentile burocrate dal sorriso rassicurante che guida la più potente macchina da soldi di Cupertino, ha dichiarato che Apple è “aperta” a fusioni e acquisizioni mentre aumenta “significativamente” i suoi investimenti nell’intelligenza artificiale. Il problema, però, è che la parola chiave non è “investimenti”, ma “rincorsa”. Perché Apple, leader del design e dell’integrazione verticale, si ritrova oggi goffamente in fondo alla corsa globale verso l’AI, arrancando dietro a Meta, Google e Microsoft, come un gigante con le scarpe troppo piccole.

Nel trimestre aprile-giugno, Apple ha incassato 94 miliardi di dollari, in crescita del 10% rispetto all’anno precedente. Un risultato mostruoso che, paradossalmente, ha l’effetto collaterale di mascherare la sua crescente irrilevanza nel nuovo paradigma tecnologico. L’AI non è solo una feature, è l’interfaccia futura del potere computazionale. E qui Apple non comanda, anzi: arranca. Mentre Meta recluta i suoi ingegneri come se fossero calciatori brasiliani pre-Mondiale, Apple si ritrova costretta a corteggiare startup come Perplexity o discutere di possibili collaborazioni (leggasi: elemosine) con colossi dell’AI generativa come OpenAI e Anthropic. L’azienda che una volta definiva il futuro ora chiede in prestito il presente.

Il CEO ha dichiarato che Apple sta “integrando l’AI in tutti i suoi dispositivi, piattaforme e processi interni”. Un’affermazione che suona come una frase copiata da un documento di marketing del 2022, ma oggi ha il retrogusto amaro del déjà-vu. Quello che colpisce non è l’entusiasmo per l’intelligenza artificiale, ma la sua tardiva messa a terra. Il progetto “Apple Intelligence” è ancora avvolto nella nebbia e, per quanto promettano una Siri più personalizzata, l’unica certezza è che il rilascio è stato rimandato perché non era “abbastanza affidabile”. In un’epoca in cui ChatGPT, Claude e Gemini reinventano il modo in cui accediamo alla conoscenza, Apple annaspa nel tentativo di rendere Siri qualcosa di più di un’interfaccia vocale frustrante.

Apple fatica a incidere in un mercato dove le sue rivali già gestiscono modelli linguistici proprietari su scala industriale. L’idea di affidare la nuova Siri a un LLM “in affitto” da OpenAI rasenta l’eresia per un’azienda che ha sempre vissuto nell’autarchia dell’hardware-software integrato. Ma i tempi disperati richiedono misure disperate, e i sorrisi di facciata non bastano a nascondere l’inquietudine profonda di chi sta perdendo il controllo sull’interfaccia del futuro.

Il tentativo di recupero passa anche da una ristrutturazione interna. Mike Rockwell, ex capo di Vision Pro (altro progetto ambizioso ma ancora a metà tra sogno e fallimento), ha preso in mano le redini dell’AI e di Siri a marzo. Un cambio di leadership che suona più come una mossa tattica da consiglio di guerra che come un vero cambio di passo. Tim Cook ha ammesso che stanno riallocando “un numero significativo di persone” sull’intelligenza artificiale. Tradotto: si sta svuotando la pancia per correre dietro a una cometa che Apple avrebbe dovuto cavalcare anni fa.

Intanto, i numeri restano solidi. L’iPhone cresce del 13%, trainato da un ciclo di upgrade più robusto. I Mac, aiutati dal lancio del nuovo MacBook Air, portano a casa 8.1 miliardi. E i servizi, la vera gallina dalle uova d’oro di Apple, toccano il record di 27.4 miliardi, dimostrando che vendere abbonamenti è molto più redditizio che vendere sogni. Ma anche questa crescita ha un lato oscuro. I servizi funzionano perché Apple ha costruito un giardino recintato che trattiene gli utenti. Ma quanto potrà durare, se l’intelligenza generativa esterna inizierà a rispondere meglio, in modo più personalizzato e proattivo, rispetto a un ecosistema chiuso e goffamente aggiornato?

Il vero rischio per Apple non è solo essere in ritardo. È il fatto che la cultura aziendale stessa, plasmata su controllo totale, perfezione del design e tempi lunghi di rilascio, è l’antitesi dell’approccio open, sperimentale e “break things” che ha permesso a OpenAI e soci di dominare la scena. E mentre la Silicon Valley premia la velocità imperfetta e la capacità di iterare in tempo reale, Apple continua a giocare una partita dove la perfezione rischia di essere la scusa per la paralisi.

Anche la sua tradizionale prudenza negli acquisti potrebbe essere messa alla prova. Per anni Apple ha evitato acquisizioni miliardarie, preferendo piccole operazioni chirurgiche. Ma ora si parla apertamente della possibilità di acquistare interi team o startup con già un LLM funzionante. Se questo avverrà, sarà la conferma che anche Cupertino ha capito di non avere più tempo. L’AI non aspetta, e il treno sta partendo con o senza di loro.

Ironia vuole che proprio mentre Apple esplora alleanze e acquisizioni per correre dietro all’intelligenza artificiale, i suoi profitti rimangano stellari. È il paradosso della rendita di posizione: si può essere immensamente ricchi e al tempo stesso culturalmente inerti. Il rischio è di diventare IBM con un logo alla moda, una macchina da soldi che però non detta più la direzione del vento.

L’intelligenza artificiale generativa, con i suoi modelli linguistici multimodali, la sua integrazione nei flussi produttivi, nella ricerca, nella customer experience, è il più grande shift computazionale degli ultimi decenni. In questo contesto, Apple non può permettersi un altro Siri moment. Deve decidere se essere protagonista o spettatore. Le frasi di Tim Cook sulla “personalizzazione” suonano bene, ma ricordano troppo da vicino quei discorsi vaghi che le aziende fanno quando non vogliono ammettere di essere in ritardo. E in un’era dominata da algoritmi conversazionali e modelli predittivi, l’ultima cosa che vuoi essere è l’azienda che ha ancora bisogno di “reallocare risorse”.

Ma, per ora, Apple continua a generare miliardi, a lanciare keynote emozionali e a vendere dispositivi che funzionano come orologi svizzeri. Il problema è che l’era dell’orologio è finita. Stiamo entrando in un mondo dove a dominare sono i modelli predittivi, non i processori. E qui, per Cupertino, i guadagni passati non comprano la credibilità futura. Non bastano più l’eleganza del metallo spazzolato e il design minimalista. Serve qualcosa di molto più difficile da costruire: una visione. Magari con un po’ meno perfezione, e un po’ più audacia.