Quello che sta accadendo attorno alla figura di Lip-Bu Tan, il nuovo CEO di Intel, è un concentrato perfetto della geopolitica del silicio travestita da teatrino politico. Un uomo nato a Muar, cresciuto a Singapore, laureato al MIT, cittadino americano da oltre quarant’anni e oggi alla guida del colosso dei semiconduttori, si ritrova accusato pubblicamente dal presidente Trump di essere “altamente conflittuale” e di dover “dimettersi immediatamente”. La colpa? Avere legami passati con investimenti e società cinesi. Tradotto: essere di origine cinese e avere fatto business in Cina, il più grande mercato tecnologico del pianeta, sembra bastare per essere etichettato come una minaccia alla sicurezza nazionale.
La dinamica è chiara. Trump non sta attaccando solo un CEO, sta colpendo un simbolo. Intel è la vecchia gloria della Silicon Valley, il gigante che ha plasmato l’era dei PC e che oggi arranca, stretto tra i muscoli di Nvidia e la crescita silenziosa di AMD e Tan, con il suo passato da venture capitalist attraverso Walden International, rappresenta la doppia faccia del capitalismo americano: quello che predica il libero mercato, finché non riguarda la Cina. Poi improvvisamente si invoca il protezionismo, la sicurezza nazionale, la “purezza” delle supply chain. È un déjà-vu perfetto, come già successo a TikTok con Shou Zi Chew, accusato più per il suo passaporto che per il modello di business.
Il paradosso è che Intel oggi dipende strutturalmente da Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, TSMC. Mentre Trump punta il dito contro i presunti conflitti di interesse del CEO, il cuore produttivo di Intel batte a Taipei, non a Santa Clara. Circa un terzo dei chip Intel arriva da TSMC, la stessa azienda che Pechino sogna di controllare e che Washington vuole proteggere a ogni costo. Se questo non è un conflitto geopolitico intrinseco, allora cos’è? La verità è che la supply chain globale dei semiconduttori è già compromessa in ogni direzione, e accusare un singolo CEO di essere “troppo vicino alla Cina” ha il sapore di un diversivo utile per distrarre dalle vere debolezze di Intel.
Molti sui social lo hanno capito subito. “È solo razzismo sistemico, mascherato da sicurezza nazionale”, scrivono gli utenti tra Singapore e Kuala Lumpur. Altri ironizzano che Intel è “il prossimo Nokia”, pronta a cadere nell’oblio mentre i rivali accelerano. È interessante notare come il dibattito pubblico nei Paesi del Sud-Est asiatico sia più lucido di quello americano: lì si conosce bene la differenza tra un legame culturale e un atto di spionaggio industriale. Lì si riconosce che chiunque abbia parenti in Cina non diventa automaticamente una spia. Ma negli Stati Uniti la narrativa elettorale ha bisogno di bersagli semplici, soprattutto quando si tratta di Silicon Valley e di Cina.
L’ombra di Cadence Design Systems, la vecchia azienda di Tan, contribuisce a rendere tutto più teatrale. Accusata di esportazioni illegali verso la Cina tra il 2015 e il 2021, si è già accordata con il governo americano. Ma negli Stati Uniti, un accordo non cancella il peccato originale, anzi lo amplifica. Diventa una prova narrativa che alimenta sospetti. Eppure nessuno osa sottolineare che, negli stessi anni, altre multinazionali americane hanno continuato a vendere in Cina, direttamente o indirettamente, senza che i loro CEO finissero sulla gogna pubblica.
Intel, intanto, non è più l’azienda che poteva permettersi di ignorare le critiche. Dieci anni fa deteneva l’80 per cento del mercato dei microprocessori, oggi è scesa al 60 e la curva continua a piegarsi verso il basso. I gamer scelgono AMD, i data center guardano a Nvidia, i produttori di smartphone non considerano più Intel rilevante. Il “Wintel” che dominava l’informatica è ormai un ricordo da manuale di storia dell’IT. E mentre la casa madre arranca, Tan deve convincere gli investitori che Intel può ancora essere un leader nell’era dell’intelligenza artificiale e dei chip per acceleratori. Non proprio il miglior contesto per farsi distrarre da un attacco politico in piena regola.
La cosa più affascinante è che la crisi rivela l’ipocrisia dell’America tecnologica. Da una parte si invoca il patriottismo industriale, dall’altra si esternalizza la produzione a Taiwan. Si accusano i manager di conflitti d’interesse con la Cina, mentre gli stessi fondi pensione americani continuano a detenere azioni di aziende cinesi quotate a Wall Street. Si parla di sicurezza nazionale, ma la vera insicurezza è che il futuro dei semiconduttori americani dipende dalla capacità di un uomo di Singapore naturalizzato americano di non farsi travolgere da un tweet presidenziale.
Lip-Bu Tan lo ha detto chiaramente: “Questo Paese è casa mia da più di quarant’anni. Amo questa azienda. Guidare Intel è un privilegio”. Non è solo retorica, è un atto di resistenza. Perché oggi guidare un colosso come Intel significa trovarsi al centro di una guerra fredda digitale, dove ogni decisione viene filtrata dall’angolo della geopolitica. Non è più sufficiente innovare sul fronte tecnologico, bisogna anche dimostrare di essere ideologicamente allineati. È il nuovo prezzo da pagare per restare un leader industriale nel mondo frammentato del 2025.
La domanda vera non è se Tan sia colpevole di conflitti di interesse, ma se Intel abbia ancora la forza di reinventarsi in un mercato dove i confini tra Washington, Pechino e Taipei dettano le regole del gioco. Trump può chiedere dimissioni quanto vuole, ma il destino di Intel non si decide su Truth Social. Si decide nella capacità di riconquistare la leadership tecnologica persa, prima che il brand che ha fatto la storia diventi davvero il prossimo Nokia. E per farlo, forse servono meno proclami e più silicio.
Gli utenti dei social media descrivono questo come un «caso comune di razzismo» negli Stati Uniti nei confronti degli immigrati di origine cinese, richiamando anche un episodio analogo che ha coinvolto il CEO di TikTok SCMP reported.