L’università contemporanea, con la sua ossessione per papers, report e saggi formattati in MLA o APA, si trova davanti a un paradosso che rasenta il grottesco. Dopo decenni passati a spingere gli studenti verso la scrittura come dimostrazione suprema di competenza, arriva la generative AI e con un paio di prompt rende la maggior parte di quel lavoro superfluo, automatizzabile, indistinguibile. La macchina non si stanca, non si annoia, non fa errori grammaticali, e soprattutto non ha bisogno di convincere un professore che ha letto dieci versioni identiche dello stesso testo negli ultimi cinque anni. Il problema è che non esiste software di detection affidabile: ogni algoritmo di sorveglianza produce falsi positivi che possono distruggere carriere universitarie e falsi negativi che trasformano i furbi in eroi del copy-paste. In questo scenario, l’idea di tornare ai metodi medievali di insegnamento non appare come un romanticismo da storici, ma come la soluzione più logica in un mondo dove scrivere non equivale più a pensare.

Clay Shirky, senior official della New York University, ha osato dirlo senza mezzi termini: la scrittura accademica come prova di apprendimento ha perso valore. Una frase che suona quasi blasfema per istituzioni che hanno fatto della penna e della tastiera il filtro d’ingresso per diplomi e dottorati. La sua proposta di riportare in auge l’orale, le discussioni faccia a faccia, gli esami in tempo reale, sembra un ritorno al passato e invece è un atto di radicale innovazione. L’università medievale si basava proprio su questo: maestri che insegnavano a voce e studenti che dovevano rispondere, argomentare, dibattere davanti a tutti. Immaginate oggi studenti abituati a ChatGPT costretti a ragionare senza rete, a improvvisare risposte, a mostrare padronanza dei concetti senza la stampella del completamento automatico. Sarebbe quasi crudele, ma infinitamente efficace.

Il nodo è che gran parte dello sforzo mentale legato alla scrittura non è più necessario. La generative AI ha reso opzionale persino il brainstorming: basta chiedere al modello di generare venti idee per una tesi e il gioco è fatto. Il rischio è che gli studenti si trasformino in curatori passivi di testi generati, incapaci di difendere ciò che presentano, come avvocati che leggono cause scritte da altri senza capirle. Un esame orale, una discussione serrata in aula, o una presentazione improvvisata eliminano all’istante la possibilità di delegare completamente la mente a una macchina. Nessun algoritmo può prendere il posto del tremito nella voce o della pausa strategica davanti a una domanda difficile.

Il dibattito non riguarda soltanto l’uso di strumenti di AI, ma la natura stessa dell’educazione. Se la missione dell’università è formare persone capaci di pensare, argomentare e comunicare, allora l’oralità è la frontiera inevitabile. Scrivere resta utile, ma come prova di apprendimento ha perso l’esclusività che aveva fino a ieri. La scrittura, oggi, misura più la capacità di prompt engineering che di ragionamento critico. Forse è tempo di riconoscerlo e accettare che l’output scritto non è più garanzia di autenticità. Il sapere autentico si vede dal vivo, non in PDF.

Le università globali osservano questo scenario con una certa ipocrisia. Da una parte investono milioni in software antiplagio e detector di AI che funzionano meno di un antivirus degli anni Novanta. Dall’altra fingono di ignorare che studenti e professori utilizzano gli stessi strumenti di AI in modo quotidiano, e spesso con entusiasmo. È la stessa schizofrenia che un tempo condannava Wikipedia come fonte “non affidabile”, salvo poi accettarla silenziosamente come background di ogni ricerca. L’università non può fermare la rivoluzione tecnologica, ma può ridefinire il proprio ruolo. E la via medievale, per quanto suoni arcaica, ha il pregio di essere resistente al trucco digitale.

Le implicazioni sono enormi. Cambiare la forma dell’esame significa trasformare il modello di insegnamento. Le aule diventerebbero spazi di interazione reale, non depositi di appunti riciclati. I professori tornerebbero a essere interlocutori, non correttori seriali di testi standardizzati. Gli studenti verrebbero valutati non sulla capacità di parafrasare articoli già scritti, ma sulla prontezza, la logica e la chiarezza nel difendere idee. Non è una nostalgia accademica, ma un aggiornamento urgente del contratto educativo. In un mondo dove le macchine scrivono meglio di noi, l’unica cosa che resta umanamente autentica è il confronto diretto.

Ci si potrebbe chiedere se questo non sia un arretramento culturale, un tornare indietro invece di andare avanti. In realtà è un salto evolutivo, un cambio di paradigma. L’università medievale non era inefficiente, era radicalmente selettiva: sopravvivevano gli studenti che sapevano parlare, convincere, pensare in tempo reale. Lo stesso modello, applicato oggi, non solo combatterebbe l’AI cheating ma produrrebbe laureati capaci di navigare la complessità, non solo di digitare richieste in un chatbot. Forse non è un caso che i grandi leader, politici o aziendali, non vengano ricordati per le loro bibliografie accademiche, ma per i loro discorsi. Le parole dette in pubblico restano, i saggi scritti dagli studenti finiscono dimenticati in archivi digitali.

Il futuro dell’educazione, quindi, non sarà una guerra contro l’AI ma un adattamento intelligente. L’università che si ostina a difendere la scrittura come unica prova di sapere combatte una battaglia già persa. L’università che osa tornare al medioevo, paradossalmente, sarà quella più proiettata verso il futuro.