La scena è surreale. Da un lato il colosso da quasi due trilioni di dollari che plasma la nostra quotidianità digitale, dall’altro il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti che prova a dimostrare di avere ancora un ruolo nel limitare il potere dei giganti tecnologici. Sul tavolo c’è la sentenza del giudice federale Amit Mehta, che ha stabilito che Google detiene un monopolio illegale nella ricerca online. Una decisione che, in teoria, dovrebbe rimettere ordine in un mercato dove la concorrenza è ormai un ricordo da manuale di economia. In pratica, invece, ha aperto un nuovo fronte di battaglia, perché la vera partita non è la dichiarazione di colpevolezza ma il rimedio da imporre.
Google e il Dipartimento di Giustizia hanno appena presentato due documenti che somigliano a manifesti politici più che a proposte giuridiche. Quasi duecento pagine in totale, piene di cavilli, definizioni, eccezioni, in cui ciascuna parte accusa l’altra di manipolare la sentenza di Mehta a proprio favore. Google dice che l’interpretazione dell’antitrust americano è eccessiva, quasi visionaria, al punto da costringerla a condividere i suoi dati con mezza Silicon Valley. Il Dipartimento di Giustizia ribatte che la proposta di Google è poco più di una farsa, una traduzione letterale del concetto di business as usual: mantenere la Ricerca come predefinita, continuare a legare YouTube, Maps o Gemini ad accordi esclusivi, insomma preservare la macchina che macina miliardi in pubblicità e che definisce ciò che vediamo ogni volta che scriviamo una parola su una tastiera o pronunciamo un comando vocale.
È un gioco delle parti che racconta molto più di quanto sembri. La questione non riguarda solo l’antitrust Google o il monopolio ricerca, ma il futuro della competizione nell’era dell’intelligenza artificiale generativa. Perché se togliamo le formule legali, la vera preoccupazione di Washington non è tanto il fatto che Google domini la ricerca oggi, ma che usi questo dominio per colonizzare anche il prossimo paradigma tecnologico. Un passaggio che l’azienda di Mountain View conosce bene, visto che è riuscita a trasformare il controllo del motore di ricerca in leva per dominare Android, la pubblicità display e ora l’IA conversazionale con Gemini.
Il giudice Mehta, nel suo memorandum, aveva scelto un approccio più chirurgico che rivoluzionario. Ha detto stop ai contratti di distribuzione esclusiva e obbligo di condividere alcuni dati con i concorrenti. Non ha chiesto a Google di smembrare Chrome, né di interrompere i pagamenti miliardari ai produttori di telefoni per assicurarsi che Google Search resti l’opzione predefinita. Una decisione che molti analisti hanno letto come una mezza vittoria per il gigante tecnologico. Non sorprende quindi che Google si prepari a fare appello, convinta che anche queste correzioni siano eccessive, mentre il Dipartimento di Giustizia si riserva di valutare se rilanciare, consapevole che i tempi della giustizia federale sono più lenti di qualsiasi algoritmo di ranking.
Il linguaggio utilizzato nei documenti depositati mercoledì sera è rivelatore. Google dipinge il DOJ come un burocrate con scarsa comprensione della tecnologia, pronto a imporre definizioni di prodotto di intelligenza artificiale generativa talmente ampie da includere anche i chatbot sperimentali di uno studente universitario. Il Dipartimento di Giustizia, al contrario, tratteggia Google come un manipolatore seriale che usa il linguaggio delle libertà di scelta per nascondere accordi coercitivi con produttori di dispositivi e sviluppatori di app. Un po’ come quando un monopolista dice al consumatore che può sempre cambiare motore di ricerca, ma omette di ricordargli che per farlo deve navigare tra cinque menu nascosti, accettare avvisi intimidatori e rinunciare a funzioni integrate che semplificano la vita.
C’è un dettaglio che vale più di mille argomentazioni. Se davvero il mercato fosse competitivo, i produttori di smartphone non avrebbero bisogno di ricevere decine di miliardi da Google per mantenere la Ricerca come opzione predefinita. Sarebbe sufficiente la preferenza spontanea degli utenti. Il fatto stesso che Google debba pagare è la prova indiretta che il monopolio ricerca non è frutto di una naturale superiorità tecnologica ma di una strategia sistematica di esclusione.
Gli osservatori più cinici sostengono che tutto questo finirà con un compromesso annacquato. Qualche aggiustamento alle clausole contrattuali, una quota simbolica di dati condivisi con Bing o DuckDuckGo, magari un divieto di legare Gemini alla distribuzione esclusiva. Ma il core business resterà intatto, perché nessun giudice federale vuole passare alla storia come quello che ha smembrato Google. È lo stesso copione visto con Microsoft negli anni Novanta, quando il DOJ tentò di spezzare il monopolio del browser Internet Explorer e si accontentò alla fine di qualche regola procedurale che non cambiò molto.
C’è però una differenza sostanziale rispetto a venticinque anni fa. Allora si trattava di difendere la concorrenza in un mercato nascente come quello del web. Oggi la partita è più grande, riguarda il controllo dell’intelligenza artificiale, la nuova infrastruttura della conoscenza. Consentire a Google di traslare il suo monopolio ricerca in monopolio IA significa accettare che un’unica azienda definisca i parametri del sapere digitale. Significa che ciò che una macchina ti risponde quando chiedi come curare una malattia, interpretare una sentenza o investire i tuoi risparmi dipende da un unico attore privato, non da un ecosistema di competitori.
Chi immagina che l’Europa, con i suoi regolamenti Digital Markets Act e Digital Services Act, possa fungere da contrappeso, sottovaluta la portata geopolitica della vicenda. Questo è un match giocato sul terreno americano, con regole americane e interessi americani. L’Unione Europea è al massimo un pubblico in tribuna che applaude o fischia, ma non sposta il risultato. Ed è per questo che Google sa di poter trattare questa causa come un fastidio gestibile. L’unica vera minaccia, paradossalmente, potrebbe arrivare da OpenAI o da altri attori che riescano a conquistare una fetta significativa di attenzione pubblica prima che l’antitrust faccia il suo lento corso.
Il paradosso è che più la giustizia rallenta, più la tecnologia accelera. Mentre i legali si scambiano faldoni e citazioni, i team di ingegneri aggiornano i modelli, sperimentano nuove interfacce e consolidano l’effetto rete che rende sempre più difficile competere. È come tentare di regolamentare il traffico di un’autostrada progettando i cartelli quando le auto viaggiano già a duecento all’ora. L’esito prevedibile è che i cartelli arriveranno troppo tardi, giusto in tempo per essere ignorati da chi ha già costruito una tangenziale parallela.
In tutto questo, la vera domanda non è se Google abbia abusato del suo potere. Quella risposta è già arrivata con la sentenza di Amit Mehta. La domanda è se esista davvero una volontà politica di limitare il monopolio ricerca, o se il sistema americano sia talmente dipendente dal gettito fiscale e dall’influenza economica delle Big Tech da preferire soluzioni cosmetiche. Una sentenza troppo dura potrebbe destabilizzare i mercati, irritare gli alleati e indebolire un campione nazionale di fronte a competitor cinesi. Una sentenza troppo morbida rischia invece di trasformare l’antitrust in una caricatura di sé stesso, un rituale formale che non incide sulla realtà.
Ecco allora la vera ironia. Nel tentativo di regolare un monopolio già consolidato, il Dipartimento di Giustizia potrebbe legittimare il prossimo. Google, dal canto suo, gioca di sponda, fingendo di difendere la libertà di scelta degli utenti mentre lavora per inglobare la ricerca nel tessuto stesso dell’IA generativa. L’utente medio continuerà a scrivere domande nella barra di Google, ricevere risposte confezionate da Gemini e credere di aver consultato il sapere universale. Nessuno si accorgerà che dietro c’è un’unica architettura privata che detta regole, priorità e visibilità.
Il futuro del caso antitrust Google non sarà deciso in quelle duecento pagine di proposte contrastanti. Sarà deciso dalla velocità con cui la tecnologia trasformerà la ricerca in qualcosa di diverso, un’esperienza immersiva e conversazionale, e dalla capacità del sistema legale di comprendere che il monopolio non è un concetto statico ma un organismo che evolve. Forse l’unica vera cura non è un rimedio tardivo imposto da un giudice, ma una politica industriale che favorisca l’emergere di alternative reali. Fino ad allora, il monopolio ricerca resterà il cuore pulsante dell’impero di Mountain View, con o senza regolamenti scritti in Times New Roman.