Il mercato dell’intelligenza artificiale ha smesso di essere una gara di algoritmi e slide patinate da conferenza per diventare il più grande colpo di teatro finanziario della storia recente. Non si tratta più solo di software che genera testo o immagini ma di una vera corsa a costruire imperi fisici, con catene di fornitura globali, infrastrutture cloud colossali e palestre di addestramento per modelli che divorano più energia di un quartiere industriale. Non è un caso che OpenAI stia cannibalizzando gli ingegneri hardware di Apple, Anthropic stia bruciando miliardi per allenare i suoi agenti digitali e Oracle continui a vendere al mercato la narrativa di un cloud valutato come se fosse il petrolio del ventunesimo secolo.
La nuova traiettoria di OpenAI è la più rivelatrice. Dopo aver sedotto il mondo con ChatGPT, l’azienda di Sam Altman ha deciso che non basta più essere un fornitore di software in abbonamento. Ora la vera ambizione è costruire hardware proprietario, sfruttando la catena di fornitura già rodata da Apple e rubando cervelli direttamente a Cupertino. È un passaggio quasi freudiano: la startup che fino a ieri si definiva laboratorio etico dell’intelligenza artificiale si comporta oggi come la più spietata delle big tech, arruolando i migliori ingegneri con stipendi che ricordano i bonus bancari degli anni pre-Lehman. La verità è che senza controllo sull’hardware nessuna azienda di AI può sopravvivere. La scarsità di GPU, l’oligopolio Nvidia e la fragilità delle filiere hanno imposto una legge darwiniana. O controlli il ferro o sei condannato a comprare a prezzi esorbitanti, aspettando in coda come un cliente qualunque.
Anthropic, da parte sua, ha deciso di seguire un copione diverso, ma ugualmente ossessivo. Invece di inseguire la gloria hardware, ha trasformato l’allenamento dei modelli in una disciplina sportiva estrema. Si parla di “palestre” digitali dove agenti simulati vengono allenati a interagire come futuri colleghi artificiali. È la versione Silicon Valley della cultura del fitness: muscoli sintetici, ma applicati a reti neurali. Il dettaglio più significativo non è tanto la tecnica del reinforcement learning, ormai nota, ma l’ordine di grandezza degli investimenti. Si bruciano miliardi in cicli di addestramento che potrebbero alimentare intere città. Perché? Perché chi arriverà per primo a costruire un agente AI credibile come collega da scrivania potrà ridefinire l’intero mercato del lavoro intellettuale. Non più assistenti digitali che fanno ricerche o riassunti, ma compagni artificiali che partecipano a riunioni, scrivono codice, redigono report e magari discutono con sarcasmo come un vero manager. Il costo è titanico, ma l’aspettativa è di una rendita monopolistica da economia di scala.
Il paradosso è che tutte queste mosse, dal reclutamento aggressivo di OpenAI alla disciplina paramilitare di Anthropic, si scontrano con i rischi più banali dei mercati tradizionali. L’intelligenza artificiale è sì il nuovo oro digitale, ma è anche un business assetato di energia, di capitale e di supply chain. Gli investimenti tecnologici sono talmente voraci che iniziano a mostrare segni di fragilità già in fase di espansione. Basterebbe un inciampo geopolitico, una crisi delle materie prime o una regolamentazione più stringente per trasformare il sogno in un incubo. Le stesse aziende che oggi si presentano come pionieri visionari rischiano di scoprire domani di essere solo dei colossi dai piedi d’argilla.
C’è un aspetto sottovalutato che merita attenzione: la narrativa di intelligenza artificiale come inevitabilità storica. I CEO la raccontano come se fosse la rivoluzione industriale del nostro tempo, un’onda che nessuno può fermare. Ma a differenza della manifattura ottocentesca, qui non parliamo di macchine a vapore e tessiture, bensì di reti neurali che necessitano di infrastrutture cloud talmente complesse da essere di fatto un oligopolio tecnologico. Il mercato non è aperto a tutti, ma ristretto a pochi giocatori che possono permettersi i miliardi necessari per restare in partita. Altro che democratizzazione: è una concentrazione di potere come non se ne vedevano da decenni.
La stessa nozione di “collega artificiale” promossa da Anthropic è rivelatrice della distorsione in atto. Non si tratta più di sostituire il lavoro manuale con macchine più efficienti, ma di simulare intelligenza, empatia e collaborazione. È un salto concettuale che apre scenari etici e psicologici ancora inesplorati. Come reagirà un team quando il membro più produttivo sarà un algoritmo? Che tipo di cultura aziendale nascerà da un ufficio popolato da entità digitali che non hanno sonno, non chiedono ferie e non hanno sindacati? È il tipo di domanda che la Silicon Valley evita accuratamente di affrontare, preferendo la narrativa del progresso inevitabile e redditizio.
Dietro l’ironia resta una realtà cruda: le scommesse attuali su intelligenza artificiale e infrastrutture cloud sono tossiche quanto quelle che portarono alla crisi dei mutui subprime. Gli attori principali sono convinti che la scala salverà tutti i peccati. Ma la storia insegna che l’ipertrofia tecnologica, quando non trova un mercato solido, finisce per implodere. Gli investimenti tecnologici possono sembrare scintillanti finché la musica suona, ma basta un cambio di ritmo perché gli stessi asset diventino irrimediabilmente pesanti.
Il futuro dell’intelligenza artificiale non si giocherà solo nella qualità degli algoritmi, ma nella sostenibilità economica delle infrastrutture necessarie a supportarli. Finché le aziende continueranno a trattare data center e GPU come se fossero pepite d’oro infinite, continueremo a vivere in una bolla sospesa tra innovazione e illusione. Il problema è che quando la bolla esploderà, non basterà un aggiornamento software per rimettere insieme i cocci.