Il dibattito sulla diversità nei consigli di amministrazione delle startup sembra aver perso fascino mediatico, come se fosse un vecchio slogan di cui ci si è stancati. Ma la realtà è che il silenzio odierno nasconde un problema enorme: i board delle startup di intelligenza artificiale, la tecnologia più potente e pervasiva del nostro tempo, sono dominati quasi esclusivamente da uomini.

Non c’è nulla di più ironico del vedere un settore che predica “democratizzazione dell’innovazione” incapace di democratizzare se stesso. Negli Stati Uniti, e in particolare in California, il cuore pulsante dell’AI, le leggi che un tempo cercavano di imporre correttivi sono state smantellate o bloccate dai tribunali. Risultato: un ritorno all’autoselezione, dove i fondatori scelgono altri fondatori, gli investitori scelgono altri investitori, e i tavoli di comando continuano a sembrare circoli privati maschili di inizio Novecento.

La fotografia più recente l’ha scattata Jennifer Siebel Newsom (in foto), regista, attivista, ma soprattutto moglie del governatore Gavin Newsom, politico che ha fatto della California un laboratorio di progressismo e scontro frontale con Trump. Siebel Newsom ha fondato nel 2020 il California Partners Project, un’organizzazione no profit con l’obiettivo di aumentare la rappresentanza femminile nella leadership. In collaborazione con Crunchbase e Illumyn Impact, ha pubblicato un rapporto che fotografa la situazione delle startup AI californiane: quasi la metà ha un consiglio formato solo da uomini, e soltanto il 15 per cento dei seggi nei board è occupato da donne.

Numeri che dovrebbero far arrossire una Silicon Valley che ama raccontarsi come frontiera inclusiva. Stiamo parlando di oltre 140 aziende di intelligenza artificiale private, la maggior parte non quotate, quindi lontane dai riflettori obbligatori delle borse. In quelle stanze si decidono direzioni strategiche, si firmano accordi con venture capitalist, si scelgono modelli e dataset che influenzeranno milioni di persone. Ma i punti di vista femminili sono quasi del tutto assenti. Jennifer Siebel Newsom lo dice senza mezzi termini: se queste aziende non diversificano i board prima di arrivare in borsa, ripeteremo gli stessi errori fatti con i social media, dove l’ossessione per la crescita ha ignorato le conseguenze sociali.

La sua proposta è concreta e spiazzante: introdurre più amministratori indipendenti. Figure che non devono essere per forza fondatori o investitori ruoli notoriamente occupati da uomini bianchi ma che possono portare competenze trasversali e prospettive diverse. Non si tratta di riempire caselle per quieto vivere, ma di assicurarsi che chi guida la rivoluzione dell’AI non lo faccia chiuso in una bolla di omogeneità.

Gli studi non mancano. Secondo dati raccolti proprio dal California Partners Project, quando nei board delle aziende pubbliche californiane è stato superato il 30 per cento di presenza femminile, i risultati finanziari sono migliorati. Morgan Stanley e McKinsey hanno più volte confermato correlazioni tra diversità e performance: aziende più eterogenee prendono decisioni migliori, riducono i rischi reputazionali, gestiscono meglio i conflitti. Non è un caso se in California, dopo l’introduzione della legge SB 826 che obbligava almeno una donna nei board delle società quotate, la percentuale di donne nei consigli è salita dal 15,5 per cento del 2018 al 32,7 per cento nel 2023. Peccato che quella legge sia stata annullata dai tribunali nel 2022, con ricorsi ancora in corso.

Il paradosso è evidente: la regolamentazione funziona, ma viene demolita in nome della libertà d’impresa. In assenza di obblighi legali, tutto torna nelle mani della volontà delle aziende. E finché la diversità non sarà percepita come leva di business, il rischio è che resti un optional di marketing.

A questo quadro si aggiunge un secondo elemento che sembra lontano, ma in realtà è intimamente connesso: la sostenibilità economica dell’AI. Mentre si discute di quote rosa, Bain & Company ha stimato che l’industria avrà bisogno di 2.000 miliardi di dollari di nuovi ricavi per finanziare l’espansione di data center e infrastrutture necessarie a supportare i modelli di intelligenza artificiale. Il problema è che, facendo i conti, ne mancano circa 800 miliardi. Nonostante l’entusiasmo degli investitori, nonostante i tagli di costi promessi, l’equazione economica non torna.

Qui entra in scena Hemant Taneja, CEO di General Catalyst, uno dei più aggressivi venture capitalist del settore, con partecipazioni in Anthropic e Mistral AI. Taneja ha sottolineato che il problema non va guardato solo dal lato dei budget software: l’AI non è un software da acquistare, è un sostituto del lavoro umano. Il vero tesoro da cui attingere non sono i budget IT, ma i budget della manodopera. Se un’azienda immagina di passare da 50.000 dipendenti a 100.000, ma solo 10.000 rimangono umani, il resto lo fa l’intelligenza artificiale. L’equazione torna se consideriamo che ogni licenza AI è in realtà un sostituto salariale.

Naturalmente questa prospettiva apre scenari inquietanti. Taneja stesso ammette che sostituire esseri umani con macchine significa dover affrontare un colossale problema sociale: la riqualificazione. Non si tratta di corsi motivazionali, ma di ripensare competenze industriali su scala nazionale, e forse globale. E qui arriva il colpo di scena: secondo lui dovrebbero essere le stesse aziende di AI a finanziare la riqualificazione dei lavoratori che stanno rimpiazzando. Un’idea affascinante sulla carta, ma che nella pratica sembra poco più di un pio desiderio. Chi mai rinuncerebbe a profitti miliardari per finanziare programmi di riqualificazione senza ritorno immediato?

Ma il punto cruciale è un altro: in board diversificati queste questioni emergono prima e vengono gestite con maggiore responsabilità. Quando si parla di bias nei dataset, di disuguaglianze negli algoritmi, di impatto sul lavoro, avere una pluralità di voci non è un lusso ideologico, è un’assicurazione di lungo periodo. Al contrario, un board chiuso rischia di concentrarsi solo sui ritorni immediati, alimentando bolle che prima o poi esplodono.

Il settore AI non è nuovo a questo tipo di contraddizioni. Da un lato, proclama missioni etiche e inclusive; dall’altro, i numeri raccontano che governa con logiche escludenti. È il solito copione della Silicon Valley: cambiare il mondo sì, ma senza cambiare se stessa. Ecco perché il tema della diversità nei consigli delle startup AI non è un dettaglio marginale, ma il cuore stesso della sostenibilità di questo ecosistema.

Il futuro dell’AI non dipenderà solo da GPU Nvidia o da miliardi di dollari di venture capital. Dipenderà da chi siede intorno ai tavoli di comando. Se lì ci saranno solo uomini che si parlano addosso, ripeteremo gli errori già visti con i social media: crescita sfrenata, impatti devastanti, correzioni tardive. Se invece quei tavoli diventeranno luoghi di vera diversificazione, non solo di genere ma di background e visioni, allora avremo qualche chance di guidare l’AI verso un futuro che non sia una caricatura distopica.