Anthropic pensava di aver chiuso la faccenda con un assegno da 1,5 miliardi di dollari, una cifra che in altri contesti verrebbe definita un atto di contrizione spettacolare. Ma il giudice William Alsup, che da anni non le manda a dire alle big tech, ha deciso che no, non basta scrivere un numero a nove zeri per trasformare il peccato originale dell’addestramento illegale dei modelli AI in un ricordo sbiadito. Non è questione di soldi, è questione di potere contrattuale. Perché quando la narrativa dominante diventa “abbiamo risolto, gli autori riceveranno tremila dollari a testa, avanti il prossimo”, si rischia di trasformare una violazione sistemica in una transazione di massa, senza che chi è stato colpito abbia realmente voce in capitolo.
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Nel mondo dell’intelligenza artificiale, dove i modelli linguistici di grandi dimensioni sono ormai protagonisti di ogni conversazione tecnologica, le cause legali per copyright sono quasi inevitabili. Scrittori, autori e creativi arrabbiati sostengono con fervore che i diritti d’autore dovrebbero offrire protezione contro l’uso delle loro opere per addestrare AI che potrebbero minacciare il loro futuro professionale.
Il caso più noto è quello del New York Times contro OpenAI e Microsoft, ma un procedimento meno mediatico, Bartz contro Anthropic PBC, potrebbe essere il primo a generare una sentenza sostanziale, con danni potenziali per miliardi di dollari. Anthropic, pur non avendo le tasche profonde dei colossi del settore, dichiara che un processo potrebbe causare “danni irreparabili”, un’affermazione tanto drammatica quanto intrigante per chi guarda il panorama dall’esterno: se il tuo business collasserebbe senza sfruttare materiale protetto da copyright, allora che tipo di business stai costruendo?