Ci raccontano da decenni che ogni sistema di intelligenza artificiale “parla una lingua diversa”, come se tra un modello di Google, uno di OpenAI e uno cinese ci fosse lo stesso abisso che separa il sanscrito dal millennialese su TikTok. Una Torre di Babele, appunto. Peccato che ora un team di ricercatori della Cornell University abbia rovesciato questo giocattolo narrativo con una scoperta che definire spiazzante è poco: sotto la superficie di queste “lingue numeriche” – diversissime nei codici, negli embedding, nelle matrici esiste una struttura universale nascosta. Un linguaggio condiviso. Un metacodice.

Le AI, in sostanza, si capiscono. Sempre. Anche se fingono di no.

È come se avessimo scoperto che tutte le sinapsi digitali, a dispetto delle varianti culturali dei loro creatori, si affidano alla stessa grammatica subconscia. Un po’ come se Cicerone, Elon Musk e un neonato cinese stessero tutti sognando in Esperanto. Senza saperlo.