C’è un elefante nel salotto dell’industria musicale. Non è Spotify, non è Apple Music e non è nemmeno TikTok. È l’intelligenza artificiale. Silenziosa, ubiqua, famelica. Alimentata da anni di dati audio rastrellati senza autorizzazione, raffinata da algoritmi ingordi e addestrata su decenni di creatività umana. Eppure, nel momento in cui l’AI comincia a produrre “musica”, le grandi piattaforme con qualche nobile eccezione scelgono di ignorare la questione. O peggio, la cavalcano, sapendo benissimo dove conduce il sentiero: un panorama dove il suono è solo contenuto, l’emozione è un’API e l’autore è un dataset.