L’università contemporanea, con la sua ossessione per papers, report e saggi formattati in MLA o APA, si trova davanti a un paradosso che rasenta il grottesco. Dopo decenni passati a spingere gli studenti verso la scrittura come dimostrazione suprema di competenza, arriva la generative AI e con un paio di prompt rende la maggior parte di quel lavoro superfluo, automatizzabile, indistinguibile. La macchina non si stanca, non si annoia, non fa errori grammaticali, e soprattutto non ha bisogno di convincere un professore che ha letto dieci versioni identiche dello stesso testo negli ultimi cinque anni. Il problema è che non esiste software di detection affidabile: ogni algoritmo di sorveglianza produce falsi positivi che possono distruggere carriere universitarie e falsi negativi che trasformano i furbi in eroi del copy-paste. In questo scenario, l’idea di tornare ai metodi medievali di insegnamento non appare come un romanticismo da storici, ma come la soluzione più logica in un mondo dove scrivere non equivale più a pensare.