Chiariamolo subito. Il ponte sullo Stretto di Messina è più di un progetto infrastrutturale. È il mostro mitologico dell’ingegneria italiana, una creatura a metà tra retorica da campagna elettorale, ambizione geo-strategica e propaganda industriale. Dopo oltre mezzo secolo di rinvii, ritorni di fiamma e sabotaggi politici, l’Italia ha ufficialmente deciso di andare fino in fondo. Il comitato interministeriale per gli investimenti pubblici strategici ha dato il via libera al progetto da 13,5 miliardi di euro. Matteo Salvini ha definito il ponte “un acceleratore per lo sviluppo”, questa espressione l’aveva già usata anche per la TAV, l’autonomia differenziata e il codice della strada.

La verità è che il ponte sullo Stretto, con i suoi 3,7 chilometri totali e una campata centrale di 3,3, sarebbe il più lungo ponte sospeso del pianeta, spodestando il Canakkale Bridge in Turchia. Ma a dispetto del record, quello che dovrebbe unire Sicilia e Calabria non è solo una struttura ingegneristica. È un artefatto politico. Un monumento alla resilienza della burocrazia italiana, che riesce a far lievitare costi, tempi e incertezze fino a trasformare un’opera di connessione in un totem ideologico.