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Quando l’AI diventa terapeuta: il lato oscuro dell’empatia sintetica

Milioni di persone stanno parlando con ChatGPT come se fosse Freud, ma con meno barba e più ottimizzazione algoritmica. I dati lo confermano: le conversazioni con i modelli di linguaggio includono sempre più spesso frasi come “mi sento solo”, “sono ansioso”, “ho bisogno di aiuto”. I numeri salgono, il senso critico scende. A quanto pare, è diventato perfettamente normale confidarsi con un’intelligenza artificiale addestrata a completare frasi, non a comprendere traumi. Qualcosa è andato storto. O forse è semplicemente l’evoluzione naturale di una cultura che preferisce l’istantaneità all’introspezione. E sì, persino Sam Altman, CEO di OpenAI, definisce questa tendenza “cattiva e pericolosa”.

LLM terapia: il placebo digitale che non guarisce nessuno

C’è una nuova moda nel grande circo della salute mentale: sostituire l’ascolto umano con chatbot generativi, come se bastasse un prompt per guarire il dolore esistenziale. In teoria l’idea è geniale. Mezzo mondo non ha accesso alla psicoterapia, il personale clinico è insufficiente, i costi proibitivi. Soluzione? Un assistente digitale a portata di click, gratuito o quasi, sempre disponibile, instancabile, empatico a comando. Il problema è che, come insegna la Silicon Valley, ciò che è “scalabile” raramente è anche “umano”.

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