Sì, lo so. Scrivvo troppo.
Me lo dicono ogni giorno, Fernando, Elisabetta, Steve, Antonio con quell’aria da zia che ti guarda come se stessi sprecando la vita:
“Ma perché pubblichi così tanto?”
E allora rispondo. Una volta per tutte.

Posto perché da trentacinque anni vivo nel mondo tech, e da quindici ci sguazzo nell’intelligenza artificiale.
Posto perché ho studiato e inseguito bolle speculative, frodi di marketing e il lato oscuro delle promesse aziendali.
Posto perché ho un diploma del Liceo… sì, ma soprattutto perché capisco il meccanismo.
Posto perché vedo i miei anici brillanti, in buona fede seguire ancora la stessa dannata playbook da consulenti anni Novanta, con un sorriso alla McKinsey e il vuoto pneumatico nelle mani.

Ma soprattutto posto perché sto rivedendo gli stessi pattern tossici di sempre, con la differenza che oggi il costo è esponenzialmente più alto.

Nel Seicento gli olandesi ipotecavano la casa per comprarsi un bulbo di tulipano.
Nel 2001 e nel 2008 abbiamo ballato con le crisi, vestiti da investitori.
Negli anni Cinquanta, l’industria dello zucchero ha pagato gli scienziati per dare la colpa ai grassi.
E la lobby del tabacco? Maestra nell’arte di travestire la morte da stile di vita.

Ora indovina? La GenAI ha aggiornato quel manuale.

Solo che oggi l’hype corre più veloce della realtà.
Il messaggio è sempre quello: “Non restare indietro, o sei fuori.”
I dati “scientifici”? Finanziati dagli stessi che vendono gli strumenti o da quelli che fanno piani per il recovery plan. Ma tanto chi vuoi che se ne accorga, giusto?

LinkedIn e i social sono pieni di professionisti rispettabili che ripetono slogan aziendali come se fossero rivelazioni.

Avvocati diventati ingegneri e ingegneri diventati avvocati.
E il pubblico applaude, scrolla, ricondivide.
Intanto i bambini iniziano a dipendere da strumenti che scoloriscono il pensiero critico e azzerano l’empatia.
I dipendenti diventano zombie cognitivi, affidandosi a sistemi bacati.
I CEO prendono decisioni affrettate, spinti dalla paura e dal sospetto che non bastino più.

E tutto questo viene spacciato per innovazione.
No, non è innovazione.
È sfruttamento vestito da disruption.

E poi ci sono i licenziamenti.
La nuova scusa preferita è “trasformazione AI”.
Ma nel frattempo? Le aziende ricomprano azioni, in silenzio. Più Wall Street che Singularity.
Una chicca? Alcuni advisory board hanno già pronte le slide con “AI strategy”, generate da ChatGPT. Ironico, no? e alcuni lo ammettono pure.

Scrivo perché non ho figli ma se li avessi
non voglio che crescano in un mondo in cui abbiamo automatizzato l’umanità fino a perderla.

Scrivo perché questa è l’unica via per restare vivi, oggi.
Noi siamo Rivista.AI, una piccola realtà di GenAI, autofinanziata e fuori dal coro.
Niente venture capital, niente FOMO pitch con le GIF di Elon Musk.
Costruiamo contenuti pensati per aumentare l’intelligenza umana, non per sostituirla.
Il nostro AI non è il maggiordomo dell’ufficio. È lo specchio critico dell’utente. Ti rallenta. Ti fa domande. Non ti vizia.

Zigghiamo mentre il mondo zaga.
E non siamo soli.

C’è chi lavora in silenzio, con coraggio.
Thinking Machines, con la visione di Mira Murati.
Safe Intelligence, che antepone l’etica al KPI.
Anthropic, che gioca la partita lunga della ricerca, e non la guerra dei demo virali.

Io mi preoccupo anche dell’etica dell’AI.
E se non operazionalizziamo i nostri valori sì, in codice, in UX, in policy, non solo nei panel rischiamo di guardarci indietro e scoprire che non abbiamo solo automatizzato i task.
Abbiamo atrofizzato il cervello.
Abbiamo venduto l’anima al prompt.

Tutti parlano di intelligenza artificiale come se fosse il nuovo dio.
Io continuo a chiedere: chi sono i nuovi sacerdoti? E perché assomigliano sempre più ai vecchi truffatori?

Un tizio al bar dei daini (il ns ufficio) una volta mi ha detto: “Oh, ma tanto l’AI risolve tutto.”
Ho sorriso e risposto: “Sì, anche la necessità di pensare.”

Ecco perché continuo a postare.
E continuerò.
Finché servirà.
Finché qualcuno là fuori, scorrendo, si fermerà.
E penserà. Anche solo per un secondo.