Nel teatrino grottesco dell’intelligenza artificiale che tutto digerisce e rigurgita con voce empatica e tono umano, si alza il sipario su una nuova battaglia legale: Ziff Davis, il colosso editoriale dietro nomi storici come CNET, PCMag, IGN e Everyday Health, ha ufficialmente fatto causa a OpenAI per violazione del copyright. Il dramma è stato svelato dal New York Times, altra compagnia già in causa con OpenAI e ormai parte integrante di quella che sta diventando una sorta di Lega delle Testate Offese.
La denuncia non è una passeggiata nella grammatica legale: Ziff Davis accusa OpenAI di aver “intenzionalmente e incessantemente” copiato il contenuto dei propri articoli, addestrando i suoi modelli su materiale sottratto senza consenso, e ignorando le istruzioni impartite tramite robots.txt, il file che dovrebbe (in teoria) dire agli scraper automatici “qui non si mangia”. Ma OpenAI, secondo l’accusa, ha fatto come il gatto col pesce lasciato incustodito: ha ignorato tutto, si è servita, e per buona misura ha anche tolto ogni traccia di copyright dalle porzioni di testo acquisite.
Non stiamo parlando di un blog solitario o di una redazione da due persone con troppa fede nel Creative Commons: Ziff Davis possiede oltre 45 brand editoriali, produce circa 2 milioni di nuovi articoli all’anno e attira 292 milioni di visitatori mensili. È uno dei player più imponenti dell’ecosistema digitale, e la sua entrata in campo legale non è una nota di colore ma una colonna sonora di guerra. E mentre alcuni media come The Atlantic, The Financial Times o The Washington Post hanno scelto di monetizzare firmando accordi di licenza con OpenAI, Ziff Davis si schiera con chi ha detto no: The Intercept, Raw Story, AlterNet e diversi gruppi editoriali canadesi. Le barricate stanno salendo e le alleanze si stringono. Sembra un remake legale de Il Signore degli Anelli, ma con copyright e crawler al posto degli orchi.
Nel cuore della causa, l’accusa più pesante è che OpenAI avrebbe immagazzinato e riprodotto copie integrali di contenuti Ziff Davis, come dimostrato da centinaia di esempi nel solo frammento del dataset WebText reso pubblico. La richiesta è drastica quanto simbolica: distruggere ogni dataset e modello che contenga contenuti dell’editore. In pratica, sterilizzare una parte del cervello dell’IA, una lobotomia digitale a colpi di sentenze.
Naturalmente OpenAI risponde con la consueta liturgia: “ChatGPT aiuta la creatività umana, promuove la ricerca scientifica e migliora la vita quotidiana di milioni di persone”, dichiara il portavoce Jason Deutrom a The Verge. La solita sinfonia di progresso, libertà e innovazione. Il dettaglio interessante è l’appello al fair use, concetto giuridico americano che permette l’utilizzo limitato di contenuti protetti per determinati scopi. Ma il confine tra “limitato” e “sfruttamento industriale” qui sembra più un miraggio nel deserto.
La posizione di Ziff Davis, in fondo, è semplice: non è solo questione di soldi (anche se quelli non mancano mai in queste dispute), è una questione di principio, di controllo del proprio patrimonio intellettuale. Quando un’IA si esprime con parole che tu hai scritto, il vero autore chi è? E chi dovrebbe guadagnarci?
Questa causa non è solo una schermaglia. È un segnale: il grande patto implicito su cui si è basato l’addestramento delle IA – “tutto ciò che è online è un buffet gratuito” – sta cominciando a sgretolarsi sotto il peso dei diritti, dei business model e delle rivendicazioni legittime. La tensione tra creatività umana e generatività artificiale non è più una questione accademica. È una guerra commerciale, editoriale e culturale. E i giudici, a breve, dovranno decidere se proteggere la proprietà intellettuale o dare via libera al copia-incolla del futuro.