L’America è il paese dove la verità è facoltativa, soprattutto se minaccia gli interessi economici o l’ego politico di un ex presidente in campagna permanente. Martedì scorso, una notizia firmata Punchbowl News ha fatto tremare l’asse Amazon-Trump: il colosso dell’e-commerce avrebbe voluto mostrare ai consumatori quanto del prezzo finale di un prodotto deriva dalle tariffe imposte dagli Stati Uniti sulla Cina. Un’iniziativa di trasparenza che, in teoria, dovrebbe essere applaudita. In pratica? È stata subito bollata come “atto ostile e politico” dalla portavoce dell’ex presidente Donald Trump. La reazione isterica non sorprende: dire ai cittadini quanto realmente pagano in più per effetto di decisioni politiche non è mai stato uno sport popolare in tempo di elezioni.

L’idea attribuita ad Amazon — poi smentita con affanno dal portavoce Tim Doyle era di indicare sui prodotti venduti attraverso Amazon Haul (la sezione discount lanciata nel 2023 per rincorrere Temu e Shein) l’incidenza delle tariffe, in particolare il nuovo balzello del 145% su molti beni d’importazione dalla Cina.

Apriti cielo. Subito è arrivata la rettifica aziendale: “non era mai stato preso in considerazione per il sito principale di Amazon, e nulla è stato implementato”. Una difesa che sa di retromarcia forzata, più che di reale chiarimento. Un tweet aziendale ha poi sigillato il tutto: “non è stato approvato e non succederà”. Tradotto: la verità costa cara, meglio evitarla.

Ma il problema resta, e brucia. Le tariffe introdotte da Trump, e poi mantenute con cinica ipocrisia anche dall’amministrazione Biden, hanno già cominciato a mordere le tasche dei consumatori. Molti dei merchant di Amazon — oltre il 60% delle vendite totali della piattaforma — operano dalla Cina o producono lì. Con l’aumento delle imposte doganali, i costi si impennano e le scorte si assottigliano. Diversi venditori hanno già alzato i prezzi o sospeso gli ordini. E non stiamo parlando di artigianato etnico o gadget marginali: parliamo di elettronica, abbigliamento, utensili, giocattoli, tutto ciò che popola i carrelli digitali degli americani medi.

In parallelo, Amazon ha rafforzato la sua offensiva diretta in stile Temu/Shein con Haul, un canale a basso costo in cui i margini sono ridotti al minimo e la spedizione avviene spesso direttamente dalla Cina. Una scommessa rischiosa in tempo di guerre commerciali e protezionismo elettorale. Ma che rivela, al netto dei comunicati, quanto Amazon stia tentando di disintermediare il proprio stesso marketplace. Se non puoi battere Temu, copia Temu. E intanto, non far arrabbiare Trump.

La tensione tra verità economica e narrativa politica è diventata insostenibile anche per i giganti della logistica. UPS ha annunciato il taglio di 20.000 posti di lavoro e la chiusura di 73 stabilimenti negli Stati Uniti, proprio mentre Amazon riduce drasticamente il numero di pacchi affidati al corriere. Il colosso delle consegne ha dichiarato che il calo dei volumi da parte del “nostro maggiore cliente” — ovviamente Amazon — supererà il 50% entro il 2026. Una débâcle annunciata. Amazon da anni sta costruendo la propria rete logistica, e UPS lo sa benissimo. Quello che ora fa male è il timing: meno pacchi, meno lavoro, più tagli. E nessuno che dica esplicitamente “Amazon ci ha scaricato”.

Nel frattempo, l’America resta incastrata nella sua schizofrenia economica: da un lato difende il libero mercato, dall’altro lo affossa a colpi di tariffe punitive. I giganti tech, che vivono di margini e ottimizzazioni estreme, devono ballare sul filo del rasoio tra trasparenza e complicità. Mostrare al consumatore quanto costa una politica commerciale? Troppo rischioso. Meglio zittire tutto, fare finta di niente, e aspettare che passi la bufera. Oppure un nuovo presidente. Ma solo se è “business friendly