La storia del Panopticon nasce nel 1791, ma la sua realizzazione più perversa sta accadendo adesso, sotto gli occhi impassibili dell’opinione pubblica e grazie a una convergenza inquietante tra potere politico, infrastruttura digitale e sorveglianza algoritmica. Jeremy Bentham l’aveva pensato per le prigioni, uno strumento architettonico per il controllo totale con il minimo sforzo. Ora siamo di fronte a una trasmutazione concettuale: da prigione fisica a prigione algoritmica. Da struttura penitenziaria a infrastruttura statale.

E se c’è un luogo dove questa distopia sta prendendo forma con velocità inquietante, è negli Stati Uniti d’America.

Trump ha solo dato la spinta decisiva, ma il terreno era stato preparato da anni di erosione lenta della privacy sotto l’egida della sicurezza, del marketing predittivo, dell’efficienza amministrativa e di un’ingenuità pubblica patologica. L’ordine esecutivo che ha smantellato i compartimenti stagni dei dati governativi ha fatto da detonatore: accesso centralizzato, interoperabilità forzata e riduzione delle barriere burocratiche. Il risultato? Una mega piattaforma federale di dati sensibili pronta ad essere usata — o abusata.

E qui entra in scena l’Intelligenza Artificiale. Non parliamo di ChatGPT o assistenti carini con voci suadenti. Parliamo di algoritmi addestrati a correlare, dedurre, classificare. Un metadata mining continuo che trasforma dati grezzi in profili comportamentali, segmenti di rischio, previsioni predittive. Non è nemmeno più sorveglianza, è preveggenza istituzionalizzata. Il DOGE (Department of Government Efficiency, per chi se lo fosse perso) sogna un database unico per l’immigrazione. L’NIH si spinge fino a ipotizzare un registro per l’autismo. Siamo a un passo dal Social Credit Score, solo con l’estetica UX-friendly di una dashboard della CIA.

Ed è qui che il paragone aziendale mostra tutta la sua mostruosità. In una corporation, il CEO risponde agli azionisti. Può essere defenestrato. Il Board può cambiare rotta. Ma uno Stato che accede a tutti i dati di tutti, senza contrappesi istituzionali, è un Leviatano digitale che non risponde a nessuno. Laddove la corporation è ancora soggetta allo Stato, lo Stato sovrano digitale non è soggetto a nulla. Ha la forza legale, la legittimità democratica (almeno in apparenza) e un arsenale tecnologico che farebbe impallidire la Stasi.

E quando qualcuno prova a replicare questo schema in Europa, la differenza la fa – o dovrebbe farla – la Costituzione. In Italia, ad esempio, il dibattito sul datalake della PA ha mostrato questa tensione: da un lato l’efficienza, dall’altro la tenuta democratica. Il fatto che abbiamo più identity provider per SPID non è inefficienza, è una scelta architetturale. Introduce attrito. E l’attrito è ciò che impedisce la cattura sistemica. Il decentramento non è tecnofobia, è anticorpo istituzionale. Serve a evitare il giorno in cui tutto dipende da un unico click.

Quintarelli che è uno dei pochi intellettuali a capire davvero la tensione tra architettura informativa e struttura democratica — lo ha spiegato più volte: il modello di interoperabilità federata, con auditing e trasparenza, è l’unico compatibile con una democrazia liberale. Perché una democrazia non è un sistema efficiente. È un sistema resistente.

Chi sogna un sistema informativo unificato, centralizzato e onnisciente, ha già tradito la premessa della democrazia: l’alternanza. La contendibilità del potere. La possibilità di dissentire senza essere profilati, schedati o silenziati. L’illusione del cittadino-utente, del cliente dello Stato, è una maschera che nasconde il rischio del cittadino-sorvegliato.

Nel panopticon digitale, non c’è bisogno di guardarti sempre. Basta che tu pensi che potresti essere guardato. È l’autocensura algoritmica, la forma più perversa di controllo: quella interiorizzata.

E no, questa non è una questione ideologica. È una questione sistemica. Perché se perdi questo, non importa chi vincerà le prossime elezioni. Perché nessuno potrà più perderle davvero.

Link alla fonte originale di The Atlantic